Quando
si ha a che fare con un lavoratore in stato di malattia (non fasulla), le
aziende debbono avere molta cautela ed agire non spinti dall’impulso o da
motivazioni anche comprensibili o ragionevoli.
Ciò significa
che, accertata la malattia del dipendente, qualsiasi decisione che l’azienda
avrebbe voluto adottare, va sospesa alla conclusione della malattia medesima,
per quanto lunga possa essere l’attesa.
Questo
tipo di atteggiamento aziendale di attesa, metterebbe al riparo i datori dalle
elevatissime probabilità negative di vertenza e tranquillizzerebbe i lavoratori
che avrebbero tutto il tempo di recuperare e di ritornare in efficienza.
Anche
nel caso di invio in ritardo del certificato di malattia, le aziende devono agire
non impulsivamente ed, al limite, devono sanzionare il fatto come un episodio
di mero ritardo e non equipararlo ad un mancato invio del certificato.
L’episodio
descritto qui appresso è emblematico: secondo la Cassazione da un lato in
presenza di una malattia effettiva, l’invio in ritardo del certificato medico
deve essere considerato un “peccato veniale” e non un fatto grave e dall’altro
lato lo stato di malattia impedisce di mettere sullo stesso piano il lavoratore
per la scelta di coloro i quali debbono essere posti in mobilità secondo i
criteri della L.n°223/1991.
Con
sentenza n. 106/2013 la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di
un lavoratore, realmente malato, che aveva inviato con cinque giorni di ritardo
una certificazione per una malattia di tre mesi: al contempo, il datore di
lavoro aveva intimato, nel caso non fosse andato a buon fine il primo
licenziamento, un altro provvedimento di recesso all’interno di una procedura
di mobilità per la quale era stato esperito l’iter.
La
Suprema Corte ha annullato anche il, secondo licenziamento.
Le
motivazioni della decisione fanno riferimento al fatto (primo licenziamento)
che la sanzione espulsiva risulta eccessiva rispetto alla previsione del CCNL
di settore ed, inoltre, l’imprenditore era a conoscenza dello “status” avendo
ricevuto in precedenza altri certificati non oggetto di alcuna contestazione.
Per
quel che riguarda il secondo licenziamento la Suprema Corte lo ha ritenuto
illegittimo “perché dopo un primo licenziamento individuale il secondo non può
essere collettivo, né consistere nel collocamento in mobilità”, in quanto la
situazione di sospensiva riferita al licenziamento individuale non consente la
necessaria comparazione tra i lavoratori secondo la previsione sui criteri di
scelta ex art. 5 della legge n. 223/1991.
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