Studio Legale Silva

lunedì 29 ottobre 2012

Riforma Fornero, una delle prime applicazioni del nuovo articolo 18

Ai fini della reintegra del lavoratore, l’insussistenza del fatto che ha portato al licenziamento non va intesa in senso materiale ma giuridico. Dunque, se anche la ricostruzione degli eventi fatta dal datore di lavoro è provata, spetta comunque al giudice valutare la gravità della condotta ai fini della configurazione o meno della giusta causa di licenziamento. Con questa motivazione la Sezione lavoro del tribunale di Bologna, sentenza 15 ottobre 2012 n. 263, ha accolto il ricorso di un lavoratore licenziato (l’azienda aveva invocato la giusta causa) per via della risposta ad una email giudicata offensiva dal datore di lavoro.
Il fatto
Dunque la vicenda partiva e si consumava nello scambio di mail tra un dipendente ed il suo superiore gerarchico. In particolare il capo chiedeva: “Per favore controlla questi disegni…”, perché vi erano state delle modifiche. Il lavoratore rispondeva: “Confido per martedì 24 luglio 2012 di avere i rilievi con le tempistiche di modifica dei programmi”. A stretto giro il dirigente replicava: “Non devi confidare. Devi avere pianificato l’attività, quindi se hai dato come data il 24/7, deve essere quella la data di consegna. Altrimenti indichi una data diversa, che non è confidente ma certa, per favore”. Apriti cielo, ecco la replica che ha portato al licenziamento: “Parlare di pianificazione nel Gruppo …, è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda. Pertanto se Dio vorrà per martedì 24/ avrai tutto”.
La valutazione del tribunale
Per il tribunale, però, da una “serena e complessiva valutazione del fatto” emerge “con evidenza la modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva, ed il suo modestissimo peso disciplinare”. Non solo, la risposta seguiva ad una mail “il cui contenuto è palesemente ed inutilmente denigratorio” oltreché contenutisticamente “offensivo della professionalità del soggetto”, che fra l’altro svolgeva dal 2007 senza altri precedenti richiami disciplinari il lavoro di caporeparto.
La riforma Fornero
Perciò, niente giusta causa. Secondo la riforma Fornero che ha inciso sull’articolo 18 della legge 300/1970, il giudice può disporre la reintegra, fra l’altro, allorché ricorra una ipotesi di insussistenza del fatto contestato, o qualora il fatto rientri tra quelli punibili con una sanzione conservativa, alla luce del Ccnl o del codice disciplinare.
Il “fatto giuridico” e quello “materiale”

Per il giudice del lavoro di Bologna ricorrono entrambi i presupposti enunciati. Infatti, l’insussistenza del fatto “fa necessariamente riferimento al cd ‘fatto giuridico’, inteso come il fatto globalmente accertato nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo”. Non può infatti ritenersi che l’espressione del Legislatore faccia riferimento al solo “fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento”, relativi “alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo”. Una simile interpretazione infatti potrebbe condurre all’applicazione del “licenziamento indennizzato” anche a “comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale e oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza volontà dell’azione”.
Inoltre, sotto il profilo dell’applicabilità delle sanzioni conservative è direttamente il Ccnl metalmeccanici a prevederle per i casi di “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori”
La reintegra
 Disposta dunque la reintegra e il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dovute e non corrisposte dal giorno del licenziamento a quello della reintegra.

lunedì 22 ottobre 2012

Il no del lavoratore al cambio di orario non giustifica il licenziamento

Il licenziamento del dipendente part-time non sorretto da giustificato motivo oggettivo ma adottato solo in ragione del rifiuto del lavoratore di modificare l’orario di lavoro è illegittimo.
Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 14833/12.
Il caso. Un lavoratore part-time alle dipendenze di una società veniva licenziato e impugnava il licenziamento. Il Tribunale di Verbania, prima, e la Corte d’appello di Torino, poi, accoglievano la domanda, annullando il licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo e ordinando la reintegrazione del lavoratore nel proprio posto oltre al pagamento da parte della società delle retribuzioni non corrisposte dal giorno del licenziamento. La Corte territoriale rilevava, poi, che il licenziamento era stato adottato perché il lavoratore, assunto part-time, si era rifiutato di modificare l’orario di lavoro. La società, respinto l’appello proposto, ricorreva per cassazione.
Secondo la società ricorrente l’atto introduttivo del giudizio non le sarebbe stato correttamente notificato, dato che gli ufficiali giudiziari lo avrebbero recapitato ad un indirizzo errato e nelle mani di una persona estranea alla società, impedendo così la tempestiva costituzione in giudizio. La Cassazione, disattendendo l’argomentazione della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di secondo grado sul punto. Infatti, la ricorrette avrebbe dovuto – ma non la ha fatto – proporre querela di falso posto che gli atti compiuti dagli ufficiali giudiziari sono riconducibili alla disciplina dell’art. 2700 c.c.. La ricorrente sostiene, inoltre, la legittimità del licenziamento, adottato per giustificato motivo oggettivo costituito da ragioni inerenti l’attività produttiva. La Suprema Corte respinge il ricorso anche sotto tale profilo, confermando che, in base alle risultanza documentali prodotte nel giudizio di merito, il licenziamento risulta in effetti adottato perché il lavoratore si era rifiutato di modificare l’orario di lavoro. Ancora, il giudice di legittimità rigetta il motivo di ricorso riguardante la falsa applicazione dell’art. 18, l. n. 300/70, essendo inoltre stata applicata la tutela reale in luogo di quella obbligatoria. La sentenza in commento ricorda chiaramente che l’onere di provare l’esistenza del requisito occupazionale, circostanza che impedirebbe l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto del lavoratori, grava sul datore di lavoro. Nel caso concreto, alla società ricorrente - contumace in primo grado – è stato correttamente precluso in sede d’appello fornire la prova della sussistenza del requisito dimensionale. Per questi motivi la Cassazione, con una decisione del tutto in linea con quanto stabilito nel giudizio di merito, respinge il ricorso addebitando le spese alla società soccombente.

martedì 16 ottobre 2012

Licenziamento è illegittimo se motivato unicamente dalla mancata realizzazione di un progetto

La Corte di Cassazione è intervenuta sul caso di un lavoratore dipendente responsabile del settore informatico di un’azienda che si è visto recapitare dalla società per la quale lavorava una lettera di licenziamento con l’addebito di negligente attuazione del progetto di informatizzazione aziendale.
Al riguardo, in particolare, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dall’azienda e confermato quindi la sentenza della Corte d’Appello, affermando che il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra di per sé l’inesatto adempimento, essendo necessario un confronto specifico tra il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello utilizzato dal lavoratore.
In altre parole, dunque, la presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo valido a legittimare il licenziamento intimato deve essere provata dal datore di lavoro mediante prove di elementi che, nel caso di specie, consentano al giudice di mettere a confronto il grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa con quello effettivamente usato dal lavoratore.
Pertanto, il giudice di merito è pervenuto alla conclusione che nel caso in esame non solo mancava l’indicazione di fatti specifici che costituiscono sul piano oggettivo violazione di obblighi disciplinari (violazione del dovere di diligenza, ecc.) ma anche la contestazione mossa al lavoratore non era valida, in quanto aveva ad oggetto il mancato raggiungimento di un risultato finale (ovvero la realizzazione del progetto di informatizzazione aziendale) che non è ascrivibile ad un lavoratore subordinato, il quale è tenuto solo ad obbligazione di mezzi

giovedì 11 ottobre 2012

Il nuovo processo dei licenziamenti



Sulla carta il nuovo processo dei licenziamenti è sicuramente più rapido: a conti fatti, otto mesi per i gradi di merito, altrettanti per il giudizio di legittimità. E ciò nonostante la suddivisione del primo grado di giudizio in due fasi. La maggior rapidità deriva dai brevi termini previsti per la fissazione delle udienze e per la trattazione della causa senza particolari formalità . E qui sorge spontanea la prima domanda: saranno rispettati tali termini? Abbiamo spesso assistito al mancato rispetto dei termini non perentori (detti "ordinatori" tecnicamente e "canzonatori" in modo meno tecnico, ma più efficace). I motivi del mancato rispetto sono molteplici e spesso validi, ma resta il fatto che spesso i termini non sono stati rispettati.

Nella prima fase del primo grado si prevede che il Giudice fissi l'udienza entro 40 giorni dal deposito del ricorso e che il giudizio possa definirsi in quell'unica udienza. Ma poiché i Giudici del Lavoro non sono aumentati, riusciranno a conciliare tutti gli impegni di udienza privilegiando il nostro contenzioso? E se così fosse non ne risentiranno i tempi di trattazione delle altre cause?

Ancora: la decisione assunta in un processo sommario non rischia di essere essa stessa sommaria? Eppure gli effetti non sono di poco conto se si pensa che il provvedimento conserva la sua efficacia sino alla pronuncia della sentenza nella successiva fase del primo grado. Vero è che tale fase è, sempre sulla carta, altrettanto rapida (30 giorni per impugnare l'ordinanza, 60 giorni per l'udienza), ma anche qui è lecito attendersi tempi più lunghi, così come in passato avveniva per il giudizio di merito che seguiva quello di urgenza ( il famoso "700"). E, quanto alla ....giusta decisione, se la seconda fase sarà trattata dal Giudice della prima fase, che garanzie concrete di revisione vi saranno?

Esaurito il primo grado, ecco l'appello, che, introdotto con reclamo da predisporre nel giro di 30 giorni, dovrà essere discusso in udienza fissata entro 60 giorni dal deposito del ricorso; ma si conoscono i tempi delle Corti d'appello e il loro numero ridotto: una sola in Piemonte, due in Lombardia, una in tutto il Veneto, una sola nel Lazio, due in Campania e così via.

Infine, la Corte di Cassazione dovrebbe ridurre gli attuali tempi annuali (nel senso di più anni) in otto mesi.

Non sarà una impresa facile. Non solo.

Paradossalmente in passato il processo sui licenziamenti era più semplice, essendo chiara la distinzione fra i casi che prevedevano la reintegrazione da quelli che non la prevedevano.

Oggi l'articolo 18 dello Statuto di Lavoratori, nel testo riformato, pone distinzioni non sempre chiare, nella concreta applicazione, fra i casi in cui è prevista la reintegrazione rispetto ai casi in cui non è prevista. Ne consegue che i fatti di causa dovranno non solo essere raccolti nell'istruttoria, ma anche interpretati e valutati per inserirli nella fattispecie di riferimento. Facile prevedere un maggior dispendio di energie (e di tempo) per la corretta qualificazione del caso prospettato. Il tutto richiederà anche una più complessa attività difensiva che inevitabilmente richiede maggiori tempi. Per esempio, esaurita l'istruttoria, quasi certamente vi saranno note difensive e discussione non solo sulla rilevanza dei fatti raccolti nell'ottica di sostenere le rispettive contrapposte ragioni, ma anche ai fini della loro qualificazione e inclusione nell'una o nell'altra fattispecie legale, essendo prevedibile che parte ricorrente cercherà, in primo luogo, di sostenere la reintegrazione ed in via subordinata il solo risarcimento e parte resistente il contrario.

Tutto ciò mal si concilia con la lodevole intenzione del legislatore di abbreviare i tempi di causa in una materia di così grande rilevanza, poiché la stessa intrinseca complessità della disciplina sostanziale e la realtà che gli operatori vivono quotidianamente sul campo confliggono con tale intenzione. E, comunque, non sempre la brevità dei tempi è sinonimo di giustizia.

mercoledì 3 ottobre 2012

Congedo parentale, legittimo il licenziamento se manca la comunicazione al datore.


Licenziamento legittimo per la lavoratrice madre in astensione facoltativa che non invii la richiesta di congedo all’Inps e per conoscenza al datore.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 16746/2012 respingendo il ricorso della donna lavoratrice.
Per i giudici “la lavoratrice che intende esercitare la facoltà di assentarsi dal lavoro per il periodo di astensione facoltativa ha l’onere di darne preventiva comunicazione al datore di lavoro e all’istituto di assicuratore ove quest’ultimo sia tenuto a corrispondere la relativa indennità, precisando il periodo dell’assenza, che è frazionabile”.
Anche il Dlgs 151/2001, Tu maternità, stabilisce che per il congedo parentale “il genitore è tenuto, salvo casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore secondo le modalità e i criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni”.
Comunicazione mai avvenuta da parte della lavoratrice la quale non ha neppure allegato condizioni particolari legate al puerperio che abbiano avuto una incidenza causale o concausale per il suddetto comportamento omissivo.