Studio Legale Silva

mercoledì 20 marzo 2013

Licenziamento per motivi economici: il “repechage”.



Nel caso di licenziamento per motivi economici, l’azienda che ha proceduto all’intimazione del recesso è stata determinata nella propria decisione dall’esistenza di ragioni di carattere produttivo e organizzativo che hanno reso necessaria la riduzione dell’organico al fine di salvaguardare perfino l’esistenza stessa della compagine societaria.

In tali circostanze, tuttavia, la posizione del prestatore di lavoro non è priva di una tutela soprattutto quando si tratta di aziende che occupano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti . La legge prescrive alcuni specifici requisiti affinché un licenziamento “economico” possa essere considerato legittimo, e tra questi requisiti vi è il noto “obbligo di repechage” ovvero la possibilità del ripescaggio all’interno della struttura aziendale.

Affinché un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sia legittimo (e quindi, affinché si possa escludere ogni possibilità di reintegra da parte del Giudice del Lavoro) è necessario che il datore di lavoro effettui un riassetto organizzativo dell’azienda effettivo e non pretestuoso, ovvero un’operazione posta in essere con il solo fine di aggirare la normativa sui licenziamenti individuali e liberarsi di personale non gradito (configurando così i casi del motivo illecito, di ritorsione o discriminatorio); in realtà, a ben vedere, quello appena descritto è solo il primo elemento poiché il datore deve comunque dare prova di aver verificato – all’interno dell’intera struttura aziendale, comprensiva di tutte le unità locali – di non essere in grado di riassorbire (o meglio, ricollocare) il lavoratore che si appresta a licenziare: ecco quindi definito il repechage.

Consolidata giurisprudenza ha confermato espressamente che il licenziamento è valido solo se il lavoratore non può essere impiegato in altro modo o settore, tenuto anche conto della possibilità anche di un demansionamento ex art. 2103 cod. civ. risultante da atto scritto (cfr. Cass. 8.2.2011, n. 3040; Cass. 28.3.2011, n. 7046; Cass. 17.11.2010, n. 23222; Cass. 26.3.2010, n. 7381); quest’ultimo rappresenta il caso limite, ampiamente dibattuto in giurisprudenza quanto in dottrina, poiché ammissibile solo ed esclusivamente se il demansionamento rappresenta l’unico modo attraverso il quale il lavoratore possa mantenere il posto di lavoro.

Sul demansionamento sono molti i profili di illegittimità, la giurisprudenza ritiene (giustamente) che il Giudice del lavoro debba, in primo luogo, verificare che non vi sia la possibilità per il prestatore di lavoro di essere adibito ad altre mansioni “equivalenti” all’interno della compagine aziendale, comprensiva anche delle altre aziende facenti parte di un eventuale gruppo; in secondo luogo, il Giudice deve accertarsi che al lavoratore siano state proposte mansioni inferiori e siano state espressamente rifiutate, poiché ritenute comunque dequalificanti.

Alcuni casi pratici possono aiutare a comprendere quando l’obbligo di “repechage” non è stato rispettato e, quindi, il licenziamento deve essere considerato illegittimo

1) un caso tipico è quando successivamente al licenziamento del dipendente, e comunque in un arco di tempo non superiore ai 6 mesi, l’azienda provveda a nuove assunzioni per lo svolgimento delle medesime mansioni (in questo caso, per altro, è proprio la natura oggettiva del recesso che viene meno in quanto viene meno la soppressione del posto);

2) un altro caso è rappresentato nel licenziamento per fine cantiere, nelle costruzioni edili, poiché il datore di lavoro deve dimostrare di non poter utilizzare gli operai in tutti gli altri cantieri nei quali è dislocata l’impresa.

Diventa quindi essenziale il momento in cui l’azienda comunichi al lavoratore la propria esigenza di dover procedere ad un riassetto organizzativo, e quindi ad una soppressione del posto di lavoro; essenziale il momento ed il contenuto di tale comunicazione, poiché deve apparire inequivocabile l’intenzione del datore e l’esigenza deve essere contingente e non altrimenti rinviabile.

giovedì 14 marzo 2013

Incentivi per l’assunzione di lavoratori licenziati da piccole imprese

Fonte: sito Ministero del Lavoro e Politiche Sociali del 11/3/2013

Incentivi per l’assunzione di lavoratori licenziati da piccole imprese
 
Varato dal Ministro Fornero un decreto che prevede l’erogazione di 190 euro mensiliIl Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elsa Fornero, comunica che, in attuazione dell’impegno a suo tempo assunto in considerazione della mancata proroga, in via legislativa, dell’apposito intervento di incentivazione all’assunzione di lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo (GMO), ha varato un decreto che prevede specifici premi per l’assunzione di tali lavoratori. In particolare, il decreto dispone l’attribuzione di un incentivo, in forma capitaria (cifra fissa mensile, riproporzionata per le assunzioni a tempo parziale), per i datori di lavoro che, nel corso del 2013, assumano a tempo indeterminato o determinato, anche part-time o a scopo di somministrazione, lavoratori licenziati, nei dodici mesi precedenti l’assunzione, per GMO connesso a riduzione, trasformazione o cessazione di attività o di lavoro. L’importo dell’incentivo è pari a 190 euro mensili per un periodo di 12 mesi, in caso di assunzione a tempo indeterminato. Il medesimo importo è corrisposto per un massimo di 6 mesi in caso di assunzione a tempo determinato. L’ammissione al beneficio è gestita dall’Inps con procedura informatizzata e automatica, fino a capienza delle risorse stanziate, pari a 20 milioni di euro. Con il provvedimento i lavoratori destinatari dell’incentivo non rischiano più di essere «spiazzati» nelle assunzioni rispetto ai lavoratori che possono essere iscritti nelle liste di mobilità, perché licenziati, con procedimento collettivo, da imprese con più di quindici dipendenti.