Studio Legale Silva

martedì 18 giugno 2013

Il “demansionamento” di un lavoratore, generalmente vietato, in alcuni casi può essere legittimo.



Nell’ambito dell’organizzazione del lavoro aziendale, è sicuramente capitato a moltissime imprese il fatto di verificare che, a seguito di crisi o di cali di produttività, una o più posizioni lavorative fossero divenute inutili e improduttive ma che i relativi lavoratori potessero essere recuperati con mansioni diverse anche se inferiori a quelle originarie.
In queste ipotesi, l’unica soluzione percorribile, per andare incontro alle esigenze aziendali senza sacrificare i lavoratori, appare quella del c.d. accordo di demansionamento in cui il lavoratore accetti di ricoprire un ruolo inferiore e con retribuzione inferiore a quella con cui è stato assunto. Questo, nondimeno, è sempre stato considerato come un comportamento vietato dalla normativa vigente.
Tuttavia, in alcuni casi, tale pratica risulta possibile e legittima.
La questione deve necessariamente essere inquadrata nella cornice giuridica di cui all’art. 2103 C.C. (Mansioni del lavoratore - Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. (…) ogni patto contrario è nullo).
Secondo il Codice, quindi, la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore (il c.d. “jus variandi” del datore di lavoro) può svilupparsi in direzione orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale nell’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, nondimeno, non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni, lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dal predetto articolo del Codice.
Il concetto di equivalenza, secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le nuove mansioni consentano l’effettivo esercizio della professionalità già acquisita, ma altresì che il lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre, principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in virtù del quale l’art. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima l’applicazione del lavoratore a mansioni inferiori, anche in presenza di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative alla posizione del lavoratore.
Tutto quanto sopra porterebbe a pensare che le ipotesi di demansionamento siano sempre vietate.
Tuttavia, la Suprema Corte, nell’ambito di diverse pronunce e con un orientamento oramai consolidato, ha sostenuto la non applicabilità della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado inferiore alle ultime svolte corrisponda all’interesse del lavoratore stesso.
In altri termini, si è osservato che il divieto di demansionamento debba essere interpretato alla stregua della regola dell’equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio posto di lavoro.
Di conseguenza, in ipotesi di crisi comportanti legittime scelte di riduzione di servizi e mansioni societarie a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l’impiego del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente espletate, non si pone in contrasto con il dettato codicistico (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009).
La Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso la possibilità di accordi di demansionamento, con assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del lavoratore stesso a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009; n. 21700/2006).
In altri termini, solo in via d’eccezione le parti posso pattuire una diminuzione della retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di demansionamento, laddove questo rappresenti l’extrema ratio per la salvaguardia del posto di lavoro. In tale ipotesi, pertanto, l’impossibilità di mantenere il medesimo livello retributivo dovrà essere rappresentato dal datore di lavoro come elemento in assenza del quale non è possibile salvaguardare il posto di lavoro,
A conforto delle suddette argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato i presupposti indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo delle mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie concrete si riscontri l’effettività della situazione economico/produttiva pregiudizievole che si vuole scongiurare e soprattutto il consenso del lavoratore validamente prestato, esente da ogni forma di vizio.

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