Studio Legale Silva

giovedì 19 aprile 2012

Articolo 18, al giudice la decisione sul reintegro nei casi di manifesta insussistenza del motivo oggettivo
 
Se il giudice accerta “la manifesta insussistenza del fatto” che sorregge il giustificato motivo addotto dall’azienda per il licenziamento, può decidere di applicare la tutela reale o quella obbligatoria, secondo criteri che però non risultano in alcun modo puntualizzati o delimitati.



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Il comma 7 prevede quattro ipotesi. La prima riguarda l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo: a) al lavoratore ritenuto inidoneo alle mansioni per malattia fisica o psichica; b) al lavoratore non più idoneo al disimpegno delle mansioni per infortunio sul lavoro o malattia professionale, ma utilizzabile in mansioni equivalenti o inferiori, in violazione del disposto del comma 4 dell’articolo 4 della legge 12 marzo 1999, n. 68; c) al disabile obbligatoriamente assunto, quando risulti scoperta la quota di riserva, in violazione del disposto del comma 4 dell’articolo 10 della stessa legge; d) al lavoratore per superamento del periodo di comporto. Si applica il regime di tutela previsto dal comma 4, quindi la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno come ivi disciplinato.
La seconda ipotesi ricorre quando il giudice accerta “la manifesta insussistenza del fatto” che sorregge il giustificato motivo addotto. In tal caso, il giudice può applicare o la tutela reale o quella obbligatoria prevista dal comma 5. I criteri cui va ispirata la scelta tra l’una o l’altra sanzione non risultano in alcun modo puntualizzati o delimitati, ad onta delle più elementari esigenze di certezza.
Ancora più criticabile è l’adozione di un criterio, quello della “manifesta insussistenza” della ragione oggettiva addotta, che contraddice il comune rilievo secondo cui il motivo economico o esiste o non esiste, non essendo suscettibile di graduazione, diversamente dalla condotta umana, che può essere più o meno grave, sia sotto il profilo fattuale, che psicologico. Se, disposta l’esternalizzazione del servizio di trasporto della merce prodotta, il licenziamento viene intimato per soppressione del reparto che vi provvedeva, è decisivo accertare se la corrispondente attività sia effettivamente cessata. Se in giudizio emerge il contrario, anche parzialmente, il motivo economico invocato semplicemente non esiste.
Non sembra pensarlo il legislatore, se è vero che la terza situazione ipotizzata è quella che si verifica quando il giudice accerta che “non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo addotto. Alla fattispecie si applica la tutela obbligatoria prevista dal comma 5, implicante la risoluzione del rapporto e la condanna la risarcimento del danno.
Dunque, dovendo darsi un senso alla previsione rispetto a quella della manifesta insussistenza della ragione giustificatrice, il legislatore sembra riferirsi al caso in cui il motivo addotto esiste e risulta provato (nell’esempio, una parte della produzione viene distribuita da terzi), ma, nondimeno, esso non giustifica la determinazione espulsiva. Ma quando ed a quali condizioni è possibile ritenere che ciò accada, oltretutto senza sconfinare nel sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro? In realtà, l’unica ipotesi certa ricompresa nella previsione è quella, peraltro di concreto rilievo operativo, del licenziamento illegittimo per il mancato assolvimento dell’onere della prova dell’impossibilità di procedere al repechage.
La norma precisa che, nell’individuazione del numero di mensilità da attribuire, il giudice tiene conto, oltre che dei criteri di cui al comma 6, in realtà 5, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di conciliazione di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sulla quali infra.
La quarta ipotesi ricorre quando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dissimula un licenziamento determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari: la tutela è quella propria delle corrispondenti fattispecie. L’accertamento presuppone una specifica domanda del prestatore, ritualmente incardinata con il ricorso introduttivo della lite: il riferimento al “corso del giudizio”, in sostanza, non attiene alla domanda, ma alla fattispecie, dovendo escludersi che la deviazione dalle regole del rito speciale possa prescindere da una compiuta e chiara indicazione.
Il comma 1 dell’articolo 13 ha sostituito il comma 2 dell’articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prevedendo che “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”. In sostanza, il giustificato motivo oggettivo deve essere necessariamente esplicitato nella lettera di comunicazione del licenziamento. La violazione della prescrizione comporta l’inefficacia del recesso, con applicazione della sanzione e delle situazioni previste dal comma 6.

Procedura di conciliazioneA sua volta, l’articolo 7 della legge n. 604 del 1966, come sostituito dal comma 4 dell’articolo 13, stabilisce che l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in regime di tutela reale deve essere preceduta da una procedura obbligatoria di conciliazione innanzi all’omonima Commissione provinciale, presso la Direzione territoriale del lavoro del luogo di svolgimento della prestazione. In particolare, il datore di lavoro deve inviare a tale Direzione una comunicazione, trasmessa per conoscenza al lavoratore, contenente la dichiarazione dell’intenzione di procedere al licenziamento e l’indicazione dei relativi motivi, oltre alle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del prestatore. La Direzione, ai sensi del comma 3, è tenuta a convocare entrambe le parti nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta. Innanzi alla Commissione le parti possono farsi assistere da un sindacalista, da un Rsa, da un avvocato o da un consulente del lavoro. La procedura deve concludersi entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione territoriale ha trasmesso la convocazione per l’incontro, salvo che le parti non siano d’accordo per la prosecuzione della discussione al fine di raggiungere un accorso. Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, il datore di lavoro può intimare il licenziamento, che può comunque intervenire una volta “decorso il termine di cui al comma 3”, cioè se la Direzione non attiva tempestivamente la convocazione. Se le parti addivengono alla risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore ha diritto alla percezione della nuova indennità mensile di disoccupazione; nella conciliazione può essere previsto l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia di somministrazione, per favorirne la rioccupazione. Il complessivo comportamento tenuto dalle parti, emergente dal verbale stilato dalla Commissione, è valutato dal giudice ai fini del regolamento delle spese di lite e della misura dell’indennità risarcitoria prevista dal comma 8, in realtà 7, dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori.
La previsione, che dimostra la perdurante fiducia riposta dal Legislatore nell’efficienza dell’Organo periferico del ministero del Lavoro, in contrasto con la realtà emersa dalla prassi in precedenti esperienze, richiede due precisazioni. La prima attiene alla rilevanza della motivazione dell’adottando licenziamento rispetto a quella che dovrà poi accompagnare l’atto espulsivo in ipotesi di insuccesso del tentativo o di suo mancato espletamento. Appare corretto ritenere che il nucleo essenziale della ragione addotta debba rimanere immutato e che siano, invece, irrilevanti le eventuali variazioni di contorno. Ove non venga rispettata la prima condizione, il lavoratore può allegare, in via alternativa o cumulativa, l’inefficacia del licenziamento ai sensi dell’articolo 7 cit. o dell’articolo 2 della legge n. 604 del 1966, in entrambi i casi con la sanzione prevista dal comma 6 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori. La seconda precisazione è che i benefici formalizzati per l’ipotesi di conciliazione non sembrano presentare peculiarità rispetto a quelli ottenibili dal lavoratore licenziato per ragioni economiche che non sia addivenuto alla transazione.
La violazione della procedura prevista dall’articolo 7 determina, come anticipato, l’inefficacia del licenziamento ed è sanzionata secondo il disposto del comma 6. La sanzione colpisce sia il licenziamento non preceduto dall’invio della comunicazione alla Direzione provinciale, sia il licenziamento tempestivamente preannunciato, ma privo di motivazione.

L’opzione in sostituzione della reintegrazione
Il comma 3 del nuovo articolo 18 Statuto dei lavoratori conferma il diritto potestativo del lavoratore che abbia ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro di optare per l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, che si aggiungono al risarcimento del danno. La norma chiarisce, innovando principi giurisprudenziali consolidati, che la richiesta comporta la risoluzione del rapporto di lavoro da quando è legalmente conosciuta dal datore di lavoro; che detto momento segna la cessazione dell’obbligo di pagamento della retribuzione; che l’indennità non è assoggettata a prelievo previdenziale; che la richiesta è rituale e tempestiva se effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza da parte della Cancelleria o dall’invito datoriale a riprendere il servizio che preceda la richiamata comunicazione. Rimane per il resto confermata l’attuale disciplina, emergente dall’elaborazione giurisprudenziale.

Licenziamento collettivo per riduzione di personale
La riforma ha introdotto due modifiche alla procedura di attuazione del licenziamento collettivo, disciplinata dalla legge 23 luglio 1991 n. 223. La prima coinvolge il comma 9 dell’articolo 4, statuendosi che la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, a favore dei destinatari normativamente previsti, deve essere effettuata dal datore di lavoro non più contestualmente all’intimazione dei licenziamenti, ma entro sette giorni. La seconda, attuata attraverso l’inserimento di un comma finale al medesimo articolo 4, abilita le parti collettive a sanare i vizi della comunicazione di cui al comma 2, ad ogni effetto di legge, con l’accordo sindacale concluso nel corso della procedura.
Una terza modifica è finalizzata ad adeguare al nuovo testo dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori le conseguenze dei licenziamenti ritenuti illegittimi o inefficaci. L’intimazione del licenziamento in forma orale è sanzionata con la reintegrazione nel posto di lavoro e con la condanna al risarcimento del danno, ai sensi del comma 1 della norma statutaria. Il licenziamento adottato in violazione della procedura sindacale disciplinata dall’articolo 4 comporta le sanzioni previste per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dal comma 7 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori, con le problematiche identificative prima richiamate. Il licenziamento intimato in violazione del criteri di scelta è sanzionato con la tutela reale prevista per i licenziamenti disciplinari illegittimi dal comma 4.
L’impugnazione del licenziamento viene assoggettata alle modalità dettate dall’articolo 6 della legge n. 604 del 1966. Il secondo termine decadenziale previsto da detta norma è ridotto a 180 giorni dagli iniziali 270, alla stregua dell’articolo 13 della legge di riforma, limitatamente ai licenziamenti successivi all’entrata in vigore della legge stessa.

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