Utilizzare
la mailing list aziendale per trasmettere messaggi sindacali critici
nei confronti della direzione aziendale integra una condotta rilevante
dal punto di vista disciplinare.
È quanto ha stabilito la Suprema Corte nella sentenza 10 settembre 2013, n. 20715.
Nella fattispecie, un dipendente di un
importante gruppo editoriale, dirigente e rappresentante sindacale, è
stato licenziato in tronco per essersi appropriato dell'indirizzario
della società con la sua password di accesso e averlo installato sul
computer del Sindacato di appartenenza per l’invio di e-mail agli altri
dipendenti e collaboratori.
In particolare, tale condotta era stata qualificata nella lettera di licenziamento come ultimo grave episodio di "...un
comportamento tenuto per anni, caratterizzato da una costante radicale
contrapposizione nei confronti della Direzione aziendale...".
Sostiene la Suprema Corte che
correttamente il giudice del merito ha qualificato tale licenziamento
come legittimo. Lo specifico fatto contestato, infatti, pur non potendo
costituire una giusta causa di recesso in tronco, se inquadrato
nell'ambito di una situazione conflittuale sintomatica di una crescente
insofferenza del lavoratore rispetto alle indicazioni dei vertici
aziendali, configura un giustificato motivo soggettivo di recesso.
Né può rilevare, precisa la Corte, il fatto che nel parallelo procedimento penale il dipendente fosse stato assolto "perchè il fatto non sussiste", in quanto tale assoluzione è avvenuta perché non sono stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell'imputato.
Infatti, come affermato in più occasioni dalla Corte di Cassazione, “ai
sensi dell'art. 652 c.p.p., (nell'ambito del giudizio civile di danni) e
dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili) il giudicato
di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove
contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o
del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non anche nell'ipotesi
in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento
dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione
del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando
l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma
2”.
Pertanto, precisa la Corte, in queste
ipotesi il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del
lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti, tenendo conto
della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le
parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente
rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento
anche ove non costituiscano reato.
In conclusione, il giudice del gravame,
evidentemente tenendo anche conto dell'esito del giudizio penale, con
giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità, ha
correttamente ritenuto che i fatti addebitati al dipendente non fossero
di gravità tale da giustificare un licenziamento per giusta causa, ma
fossero comunque idonei ad integrare un giustificato motivo soggettivo
di recesso.