Studio Legale Silva

martedì 14 maggio 2013

Anche gli episodi non gravi se ripetuti giustificano il licenziamento



Corte di Cassazione Civile - Sezione Lavoro - Sentenza n. 10959 del 9 Maggio 2013

In materia di lavoro la Suprema Corte ha stabilito che ogni singolo episodio che singolarmente non è tale da comportare il licenziamento del lavoratore ma è comunque idoneo ad incidere negativamente nel rapporto lavorativo deve essere concretamente valutato poiché insieme ad altre azioni, anche queste singolarmente ininfluenti, possono comportare il licenziamento del dipendente per giusta causa.

In poche parole, la Cassazione ha deciso che nel valutare ogni singola vicenda che comporta il licenziamento del lavoratore, in mancanza di un fatto grave di per sé idoneo a giustificarlo, si devono tenere in considerazione anche quei comportamenti ripetuti che presi singolarmente non giustificano il licenziamento del dipendente ma, considerati nell'insieme, determinano l'impossibilità di continuare il rapporto lavorativo e, pertanto, giustificano la suddetta sanzione disciplinare.

Nel caso esaminato dai Giudici la decisione presa dalla Corte d'Appello è stata cassata con rinvio poiché "la Corte infatti nell'esprimere un giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata ed accertata, ha, per un verso, del tutto omesso di valutare alcune circostanze di fatto, emerse nel corso dell'istruttoria e, per altro verso, mancato di verificare se le stesse, poste in relazione con le altre condotte accertate, fossero, ove complessivamente valutate, rivelatrici di un comportamento del dipendente che violava i doveri di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto, così giustificandone la risoluzione".

mercoledì 8 maggio 2013

Secondo la Cassazione il nuovo articolo 18 non si applica ai processi in corso (Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 7 maggio 2013 n. 10550)



No all’applicazione del nuovo articolo 18, modificato dalla legge Fornero, ai processi in corso. A chiarirlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 10550 del 7/5/2013, giudicando sul caso di un lavoratore della Telecom licenziato per aver inviato 13mila sms, in meno di un anno, dal telefono aziendale, provocando un danno di circa 3 milioni di lire. 

La Corte d'Appello di Napoli, ribaltando le decisione di primo grado ne aveva ordinato il reintegro, e ora la Cassazione ha confermato quella decisione, bocciando, fra l’altro, anche il motivo di ricorso con cui l’azienda chiedeva l’applicazione della Fornero e dunque il risarcimento del danno in luogo del reintegro.



Secondo la società ricorrente, infatti, la nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti introdotta dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), in mancanza di disposizioni transitorie, sarebbe immediatamente applicabile.



Una posizione però non condivisa dalla Suprema corte secondo cui legge 92/2012 ha introdotto “una nuova, complessa ed articolata disciplina dei licenziamenti che ancora le sanzioni irrogabili per effetto della accertata illegittimità del recesso a valutazioni di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità ma anche con una eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo”.



Di mezzo, infatti, c’è la “ragionevole durata del processo” che verrebbe sacrificata da una diversa interpretazione. Ma a farne le spese, nel caso di una applicazione immediata, sarebbe anche l’articolo 111 della Costituzione sul “giusto processo”; l’articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Diritto a un equo processo), nonché l’articolo 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale).



Secondo i giudici di Piazza Cavour infatti la legge Fornero introduce un “un’evidente ‘stravolgimento’ del sistema di allegazioni e prove nel processo”, e dunque non si limita “ad una modifica della sanzione irrogabile (come nel caso, pur opinabile, delle modifiche introdotte dall’art. 32 della legge n. 182/2010) ma si collega ad una molteplicità di ipotesi diverse di condotte giuridicamente rilevanti cui si connettono tutele tra loro profondamente differenti”.



Insomma, quello che esce dalla riforma è “un sistema unico che non incide sul solo apparato sanzionatorio ma impone un approccio diverso alla qualificazione giuridica dei fatti incompatibile con una sua immediata applicazione ai processi in corso”.



“Né, al contrario - conclude la sentenza -, vale sostenere che il legislatore del 2012, laddove abbia inteso differire l’entrata in vigore delle disposizioni della legge lo ha fatto espressamente (cfr. art. 1 commi 38 e 39 della legge n. 92/2012 in tema di abbreviazione termini di decadenza dall’impugnazione giudiziaria del licenziamento) stante la necessità di una disposizione di tal genere ove si ritenga necessario differire l’entrata in vigore di disposizioni di evidente natura processuale quali quelle richiamate”.



La Cassazione poi ricorda  che il nuovo “Sistema” prevede distinti regimi di tutela a seconda che si accerti la natura discriminatoria del licenziamento, l’inesistenza della condotta addebitata, ovvero la sua riconducibilità tra quelle punibili solo con una sanzione conservativa (sulla base delle disposizioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili).



“In tali casi - proseguono i giudici - persiste il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro e ad ottenere un “pieno” risarcimento del danno (dalla risoluzione del rapporto alla reintegrazione), nei limiti dell’aliunde perceptum dell’aliunde percipiendum, mai al di sotto di cinque né al di sopra di dodici mensilità”.



Ma, “in tutti gli altri casi di accertata illegittimità del licenziamento per mancanza di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, il nuovo comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede solo una tutela risarcitoria (tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita)”. Ed è a  questa ipotesi che si rifaceva la Telecom nel suo ricorso, e che la Cassazione ha dichiarato non applicabile in quanto il processo era già in corso alla data di pubblicazione della legge.



Mentre ancora non è stata affrontata la questione della applicabilità della nuova norma ai licenziamenti antecedenti l’entrata in vigore della riforma per i quali però a quella data ancora non era ancora stato introdotto il procedimento giurisdizionale. 

giovedì 2 maggio 2013

Brevi riflessioni sulla “giusta causa” di licenziamento.



Per poter licenziare un lavoratore dipendente si devono verificare specifiche situazioni che possono riguardare la condotta del lavoratore o la situazione in cui si trova l'azienda (Art. 1 Legge 15 luglio 1966, n. 604 - Legge 15 luglio 1966 n. 604 Norme sui licenziamenti individuali pubblicata nella G.U. n. 195 del 6 agosto 1966; art. 18 dello Statuto dei lavoratori, etc).
Alla condotta del lavoratore si riconducono le motivazioni per il licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, mentre alla situazione in cui si trova l’azienda si riconduce licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il significato di giusta causa di licenziamento non è determinato esplicitamente dalla normativa vigente, dato che l'art. 2119 del Codice Civile si limita a definire in modo generico come giusta causa per il licenziamento quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro, cioè non consente neppure di proseguire il rapporto di lavoro per il periodo di preavviso.
Un fatto che determinata la giusta causa di licenziamento, inoltre, deve avere anche un'incidenza significativa sulla rottura del vincolo fiduciario tra azienda e lavoratore.
Il giudice può rilevare la giusta causa del licenziamento di un dipendente, secondo la giurisprudenza, se viene accertata in modo concreto e non come fatto astratto (in rapporto alla qualità e alla tipologia di vicolo di fiducia insito in quello specifico rapporto lavorativo) la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata sia nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva.
Secondo la Giurisprudenza oramai consolidata, “per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (licenziamento), stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.
Incombe sul datore di lavoro l’onere della prova della realizzazione da parte del lavoratore del comportamento che integri una grave lacerazione degli elementi essenziali del rapporto ed, in particolare, di quello fiduciario. Peraltro tali elementi devono essere esplicitati dal datore di lavori sin nella primissima lettera di contestazione nei confronti del lavoratore.
Il datore di lavoro anche nel contratto di lavoro a tempo determinato può licenziare un dipendente prima della scadenza del contratto, ma di fatto solo pergiustificata causa o meglio, per giusta causa (art. 2119).
Ma cosa significa che la giusta causa va accertata in concreto? Significa che l'accertamento deve presupporre una valutazione relativa alla sussistenza dell'impedimento alla immediata prosecuzione del rapporto di lavoro. Si tratta quindi di una valutazione non astratta, ma concreta, di tutti gli aspetti inerenti la natura e la qualità del singolo rapporto di lavoro tra datore e lavoratore, alla posizione delle parti in causa, alle mansioni svolte da dipendente, dal grado responsabilità richiesto, e anche dalla portata soggettiva del fatto commesso. Vengono quindi prese in considerazione anche i tempi, le circostanze e i motivi che hanno portato al verificarsi del fatto, e l'intenzionalità o meno del fatto stesso.
Può essere imputabile ad un dirigente, ma anche da un impiegato con mansioni non direttive e senza grandi responsabilità, o ad un operaio come ad esempio un addetto alle pulizie, seppur meno grave, per il quale, di regola, tale vincolo di fiducia non è così intenso.
Ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, nel caso in cui il comportamento del dipendente abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia, secondo la giurisprudenza è irrilevante l'assenza o la modesta entità di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro. È infatti sufficiente che il lavoratore dipendente abbia determinato una situazione di pericolo obiettivo di danno, purché questo sia di concreto rilievo.
Sono accertati abbastanza uniformemente dalla giurisprudenza come motivo di licenziamento per giusta causa, i casi di furto a danno del datore di lavoro, l'ingiuria grave, l'insubordinazione, la rissa, l'abbandono ingiustificato del servizio, la divulgazione di segreti aziendali.
Sempre secondo la giurisprudenza, possono costituire giusta causa di licenziamento, in alcuni casi, anche i comportamenti tenuti dal lavoratore al di fuori dall'attività lavorativa. Questo avviene solo nel caso in cui questi fatti, per via della loro natura e gravità, si possano riverberare sul rapporto lavorativo e possano evidenziare, tra l’altro, la totale inaffidabilità professionale del lavoratore a svolgere le sue mansioni lavorative. Ad esempio, la condanna per furto, compiuto fuori dal lavoro, di una centralinista che lavora in banca non giustifica un licenziamento per giusta causa, mentre potrebbe integrare i motivi di licenziamento per giusta causa di un cassiere.