Studio Legale Silva

venerdì 18 ottobre 2013

L'uso abusivo della mailing list aziendale per messaggi sindacali può portare al licenziamento.

Utilizzare la mailing list aziendale per trasmettere messaggi sindacali critici nei confronti della direzione aziendale integra una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte nella sentenza 10 settembre 2013, n. 20715.
Nella fattispecie, un dipendente di un importante gruppo editoriale, dirigente e rappresentante sindacale, è stato licenziato in tronco per essersi appropriato dell'indirizzario della società con la sua password di accesso e averlo installato sul computer del Sindacato di appartenenza per l’invio di e-mail agli altri dipendenti e collaboratori.

In particolare, tale condotta era stata qualificata nella lettera di licenziamento come ultimo grave episodio di "...un comportamento tenuto per anni, caratterizzato da una costante radicale contrapposizione nei confronti della Direzione aziendale...".

Sostiene la Suprema Corte che correttamente il giudice del merito ha qualificato tale licenziamento come legittimo. Lo specifico fatto contestato, infatti, pur non potendo costituire una giusta causa di recesso in tronco, se inquadrato nell'ambito di una situazione conflittuale sintomatica di una crescente insofferenza del lavoratore rispetto alle indicazioni dei vertici aziendali, configura un giustificato motivo soggettivo di recesso.

Né può rilevare, precisa la Corte, il fatto che nel parallelo procedimento penale il dipendente fosse stato assolto "perchè il fatto non sussiste", in quanto tale assoluzione è avvenuta perché non sono stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell'imputato.

Infatti, come affermato in più occasioni dalla Corte di Cassazione, “ai sensi dell'art. 652 c.p.p., (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili) il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2”.

Pertanto, precisa la Corte, in queste ipotesi il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti, tenendo conto della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano reato.

In conclusione, il giudice del gravame, evidentemente tenendo anche conto dell'esito del giudizio penale, con giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità, ha correttamente ritenuto che i fatti addebitati al dipendente non fossero di gravità tale da giustificare un licenziamento per giusta causa, ma fossero comunque idonei ad integrare un giustificato motivo soggettivo di recesso.