Nel caso di
licenziamento per motivi economici, l’azienda che ha proceduto all’intimazione
del recesso è stata determinata nella propria decisione dall’esistenza di
ragioni di carattere produttivo e organizzativo che hanno reso necessaria la
riduzione dell’organico al fine di salvaguardare perfino l’esistenza stessa
della compagine societaria.
In tali
circostanze, tuttavia, la posizione del prestatore di lavoro non è priva di una
tutela soprattutto quando si tratta di aziende che occupano alle proprie
dipendenze più di 15 dipendenti . La legge prescrive alcuni specifici requisiti
affinché un licenziamento “economico” possa essere considerato legittimo, e tra
questi requisiti vi è il noto “obbligo di repechage” ovvero la
possibilità del ripescaggio all’interno della struttura aziendale.
Affinché un
licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sia legittimo (e
quindi, affinché si possa escludere ogni possibilità di reintegra da parte del
Giudice del Lavoro) è necessario che il datore di lavoro effettui un riassetto
organizzativo dell’azienda effettivo e non pretestuoso, ovvero un’operazione
posta in essere con il solo fine di aggirare la normativa sui licenziamenti
individuali e liberarsi di personale non gradito (configurando così i casi del
motivo illecito, di ritorsione o discriminatorio); in realtà, a ben vedere,
quello appena descritto è solo il primo elemento poiché il datore deve comunque
dare prova di aver verificato – all’interno dell’intera struttura aziendale,
comprensiva di tutte le unità locali – di non essere in grado di riassorbire (o
meglio, ricollocare) il lavoratore che si appresta a licenziare: ecco quindi
definito il repechage.
Consolidata
giurisprudenza ha confermato espressamente che il licenziamento è valido solo
se il lavoratore non può essere impiegato in altro modo o settore, tenuto anche
conto della possibilità anche di un demansionamento ex art. 2103 cod. civ.
risultante da atto scritto (cfr. Cass. 8.2.2011, n. 3040; Cass. 28.3.2011, n.
7046; Cass. 17.11.2010, n. 23222; Cass. 26.3.2010, n. 7381); quest’ultimo
rappresenta il caso limite, ampiamente dibattuto in giurisprudenza quanto in
dottrina, poiché ammissibile solo ed esclusivamente se il demansionamento
rappresenta l’unico modo attraverso il quale il lavoratore possa mantenere il
posto di lavoro.
Sul
demansionamento sono molti i profili di illegittimità, la giurisprudenza
ritiene (giustamente) che il Giudice del lavoro debba, in primo luogo,
verificare che non vi sia la possibilità per il prestatore di lavoro di essere
adibito ad altre mansioni “equivalenti” all’interno della compagine aziendale,
comprensiva anche delle altre aziende facenti parte di un eventuale gruppo; in
secondo luogo, il Giudice deve accertarsi che al lavoratore siano state
proposte mansioni inferiori e siano state espressamente rifiutate, poiché
ritenute comunque dequalificanti.
Alcuni casi
pratici possono aiutare a comprendere quando l’obbligo di “repechage”
non è stato rispettato e, quindi, il licenziamento deve essere considerato
illegittimo
1) un caso
tipico è quando successivamente al licenziamento del dipendente, e comunque in
un arco di tempo non superiore ai 6 mesi, l’azienda provveda a nuove assunzioni
per lo svolgimento delle medesime mansioni (in questo caso, per altro, è
proprio la natura oggettiva del recesso che viene meno in quanto viene meno la
soppressione del posto);
2) un altro
caso è rappresentato nel licenziamento per fine cantiere, nelle costruzioni
edili, poiché il datore di lavoro deve dimostrare di non poter utilizzare gli
operai in tutti gli altri cantieri nei quali è dislocata l’impresa.
Diventa
quindi essenziale il momento in cui l’azienda comunichi al lavoratore la
propria esigenza di dover procedere ad un riassetto organizzativo, e quindi ad
una soppressione del posto di lavoro; essenziale il momento ed il contenuto di
tale comunicazione, poiché deve apparire inequivocabile l’intenzione del datore
e l’esigenza deve essere contingente e non altrimenti rinviabile.