Studio Legale Silva

mercoledì 27 febbraio 2013

I contratti collettivi aziendali e territoriali di prossimità



L’articolo 8 del Decreto-Legge del 13 Agosto 2011 n. 138 convertito con modificazioni in Legge 14 Settembre 2011 n. 148 ha dettato norme in tema di sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità.
Il legislatore ha inteso introdurre una minore rigidità in tema di regolamentazione del rapporto di lavoro attraverso la contrattazione collettiva di prossimità cui ha attribuito il potere di deroga peggiorativa alle disposizioni di legge e di contratto collettivo nazionale.
Per contrattazione collettiva di prossimità si intendono i contratti collettivi sottoscritti al livello aziendale o territoriale, per cui si tratta di una contrattazione di ambito più circoscritto rispetto a quella nazionale o più prossima all’azienda ovvero direttamente relativa alla disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti di una specifica azienda.
È opportuno chiarire che la normativa in questione, proprio perché prevede la possibilità di una deroga in peius delle norme di legge, sarà probabilmente oggetto di una interpretazione rigorosa, per cui i casi e le ipotesi da essa previsti devono anche considerarsi tassativi e non suscettibili di un’applicazione analogica o estensiva.
Giova anche evidenziare che un contratto di prossimità non puntualmente rispondente alle regole dettate dall’art. 8 fuoriesce dalle ipotesi di legittimazione normativa in deroga, per cui sarà nullo per contrasto con le norme imperative derogate, con conseguente applicazione di tali ultime norme.
La legge individua gli agenti contrattuali legittimati alla stipula dei contratti nelle “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 Giugno 2011”.
La legge individua dunque due ipotesi di agenti contrattuali e cioè le associazioni sindacali dei lavoratori ovvero le rappresentanze sindacali operanti in azienda.
Per le prime la legge richiede il requisito della maggiore rappresentatività comparativa al livello nazionale o territoriale. La maggiore rappresentatività comparativa è un requisito diverso dalla maggiore rappresentatività. Rispetto alla maggiore rappresentatività, la maggiore rappresentatività comparativa richiede un elemento ulteriore, e cioè la comparazione con gli altri sindacati maggiormente rappresentativi.
Tale nozione fu introdotta per evitare i c.d. “contratti pirata”. Essa è stata anche prevista dal D.Lgs 276/03 per individuare i sindacati legittimati ad integrare o modificare le norme di legge (ad es. in tema di clausole elastiche del part-time).
La dottrina e la giurisprudenza hanno individuato numerosi criteri per determinare la sussistenza della maggiore rappresentatività che probabilmente non sono idonei ai fini della maggiore rappresentatività comparativa.
A tali ultimi fini la dottrina ritiene, pur con qualche dubbio, determinante il criterio proporzionale del numero totale degli iscritti sul numero totale dei lavoratori sindacalizzati, con un recupero di concezioni privatistiche perché si prescinde dalla capacità di aggregare consenso anche al di fuori della cerchia degli iscritti.
Il punto debole della normativa sembra il riferimento alla possibilità di valutare la maggiore rappresentatività comparativa su un livello territoriale che potrebbe, in linea teorica, legittimare una contrattazione collettiva definita “pirata” e cioè stipulata da sindacati di comodo.
Sembra dunque che, accanto ai requisiti previsti espressamente dall’art. 8 di cui si tratta, debba essere considerata anche la disposizione dettata dall’art 17 dello Statuto dei Lavoratori che vieta i sindacati di comodo.
Tale norma pone dunque un limite ulteriore ai fini della individuazione degli agenti contrattuali legittimati alla stipula dei contratti di prossimità. Per quanto concerne le rappresentanze sindacali aziendali rileva anzitutto il riferimento alla normativa di legge e dunque all’art. 19 Statuto dei lavoratori (vedi Manuale, Sezione II, capitolo I, paragrafo 5.2). Va subito sottolineato però che non necessariamente una RSA rispondente al criterio dell’art. 19 SL ( e cioè istituita nell’ambito di un sindacato firmatario di contratto collettivo applicato all’unità produttiva) coincide con la rappresentanza sindacale legittimata a stipulare i contratti collettivi di prossimità, in quanto occorrerà pur sempre che il sindacato, nel cui ambito è costituita la RSA, sia comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale o territoriale.
La seconda rappresentanza sindacale da prendere in considerazione è la rappresentanza sindacale unitaria (RSU).
La norma fa anche riferimento all’accordo interconfederale 28 Giugno 2011 che è stato stipulato da Confindustria, CGL, CISL e UIL e che regolamenta, tra l’altro, i rapporti tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale.
La legge disciplina altresì l’efficacia della contrattazione collettiva di prossimità che è estesa a tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritta sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali. In pratica nell’ambito delle rappresentanze sindacali la volontà della maggioranza prevale sulla volontà della minoranza e determina l’estensione dell’efficacia del contratto collettivo a tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro iscrizione al sindacato
La contrattazione collettiva di prossimità deve assolvere specifiche funzioni individuate dalla legge per poter legittimamente procedere ad una deroga peggiorativa della regolamentazione dei rapporti di lavoro.
La legge individua espressamente le seguenti finalità: 

  • Maggiore occupazione;
  • Qualità dei contratti di lavoro;
  • Adozione di forme di partecipazione dei lavoratori;
  • Emersione del lavoro irregolare;
  • Incrementi di competitività e di salario;
  • Gestione delle crisi aziendali e occupazionali; 
  • Investimenti ed avvio di nuove attività.

 Si intende dire che la finalità delle intese non è quella di prevedere le deroghe di contenuto normativo ma quella di raggiungere gli obbiettivi sopra elencati, rispetto ai quali sono solo strumentali le diverse ed eventualmente peggiori regole per il lavoratore.
Il legislatore individua anche il contenuto delle intese con un’elencazione tassativa come quella degli obiettivi.
Le intese di prossimità possono riguardare la regolamentazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: 

  1. agli impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie;
  2. alle mansioni del lavoratore, alla classificazione ed inquadramento del personale;
  3. ai contratti a tempo, ai contratti ad orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai piani di ricorso della somministrazione di lavoro; 
  4.  alla disciplina dell’orario di lavoro;
  5. alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative, a progetto e le partite iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro ed alle conseguenze del recesso dal contratto di lavoro.

 In realtà si tratta di un elenco di materie che investono gli aspetti fondamentali della disciplina del rapporto di lavoro dalla costituzione alla cessazione, nonché di altre ipotesi di utilizzo della prestazione di lavoro e di esternalizzazione di parti dell’attività aziendale.
La contrattazione collettiva di prossimità, sotto tali aspetti, assume un ruolo centrale per i poteri attribuiti di deroga alle disposizioni di legge ed alle disposizioni di contratti collettivi nazionali  di lavoro nelle materie sopra elencate. In tali materie dunque l’inderogabilità delle norme di legge e gli stessi rapporti tra livelli di contrattazione sono limitati a vantaggio della contrattazione di prossimità.
Insomma, sussistendo le condizioni previste dall’art.8, anche le norme inderogabili di legge sono suscettibili di una deroga peggiorativa da parte della contrattazione collettiva di prossimità, potere di contenuto generale non riconosciuto neanche alla contrattazione nazionale.
Il legislatore tuttavia prevede dei limiti al potere di deroga, individuando una sorta di linea di confine di inderogabilità assoluta che non tollera peggioramenti da parte dei contratti di prossimità pur in presenza delle condizioni previste dall’art.8.
Si tratta dei principi sanciti dalla Costituzione, dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, nonché una serie di ipotesi in tema di licenziamento.
Si è detto che gli accordi di prossimità possono derogare alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. Ciò significa che gli accordi di prossimità possono incidere solo sulle conseguenze del licenziamento illegittimo e non sul principio della motivazione del licenziamento.
Il legislatore ha espressamente escluso che gli accordi di prossimità possano derogare alle disposizioni vigenti in tema di: licenziamento discriminatorio; licenziamento della lavoratrice in concomitanza di matrimonio; licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino; licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore; licenziamento in caso di adozione o affidamento.
Queste ipotesi sono caratterizzate da inderogabilità assoluta e non suscettibili di deroghe da parte della contrattazione di prossimità, in quanto le relative regolamentazioni rispondono evidentemente ad interessi superiori e costituzionalmente rilevanti rispetto alle finalità che i contratti collettivi di prossimità perseguono.
Da ultimo la norma prevede una disposizione transitoria per l’estensione dell’efficacia dei contratti aziendali stipulati prima del 28 Giugno 2011 a tutto il personale anche non iscritto alle organizzazioni stipulanti a condizione che sia stata approvata con votazione a maggioranza dei lavoratori.

martedì 19 febbraio 2013

I licenziamenti collettivi alla luce della riforma Fornero.



Le modifiche alla disciplina dei licenziamenti collettivi apportate dalla L.n°92/2012 o riforma del mercato del lavoro o riforma Fornero.

La L.n°92/2012, legge di riforma del mercato del lavoro, ha modificato in parte la disciplina dei licenziamenti collettivi. Tale istituto è disciplinato dalla L. 23 luglio 1991, n. 223 o legge sulla “procedura di mobilità”.

Come sappiamo, le cause che giustificano il ricorso a tale istituto risiedono nella riduzione o trasformazione dell’attività o del lavoro e/o nella cessazione dell’attività.

L’ipotesi di licenziamento collettivo si verifica nel caso in cui le imprese che occupano più di 15 dipendenti, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendono effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco temporale di 120 giorni nell’unità produttiva oppure in più unità produttive dislocate nella stessa provincia. La normativa si applica a tutti i licenziamenti che, nel medesimo arco temporale e nello stesso territorio siano riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.

Vi è una piccola differenza tra il concetto di “licenziamento collettivo” e quello di ricorso alla “procedura di mobilità”, ma di fatto essa è eminentemente sistematica e terminologica e, quindi, sostanzialmente di poco rilievo.

L’iter procedurale da seguire è disciplinato dall’articolo 4 della legge n.223 del 1991 che disciplina la procedura per la dichiarazione di mobilità (come detto, identica in caso di licenziamenti collettivi). I commi 44 e 45 dell’art. 1 della riforma Fornero, vanno a modificare proprio l’art. 4 L. 223/9, intervengono sulla procedura sindacale che deve seguire il datore di lavoro il quale intenda intimare licenziamenti collettivi, prevedendo:

  • che la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, che l’impresa deve effettuare nei confronti di determinati soggetti pubblici, avvenga non contestualmente (come prevede, attualmente, l’articolo 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991), bensì entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi a ciascuno dei lavoratori interessati (comma 1);
  • che gli eventuali vizi della comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (con la quale inizia la procedura di licenziamento collettivo) sono sanabili, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesima procedura (comma 2).

Il comma 46 invece, va ad adeguare le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi o inefficaci, intimati ai singoli lavoratori all’esito della procedura di licenziamento collettivo, al nuovo testo dell’articolo 18 della legge n.300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) introdotto dalla riforma.

In particolare, si prevede che:

  • in caso di recesso intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio previsto dal nuovo testo dell’articolo 18, comma 1, della legge n.300 del 1970 (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione, comunque non inferiore a 5 mensilità);
  • in caso di recesso intimato senza il rispetto della procedura sindacale prevista dall’articolo 4, comma 12, della legge n. 223 del 1991, si applica la tutela prevista per i licenziamenti economici dal nuovo testo dell’articolo 18, comma 7, terzo periodo, della legge n.300 del 1970 (ossia indennità determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale);
  • in caso di recesso intimato violando i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità (elencati dall’articolo 5 della legge n. 223 del 1991), si applica la tutela reale prevista dal nuovo testo dell’articolo 18, comma 4, della legge n.300 del 1970 (ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilità).

Infine, si prevede che in tali ipotesi, ai fini dell’impugnazione dei licenziamenti, trovino applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge n. 604 del 1966.

Ciò significa che il licenziamento deve essere impugnato con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavoratore, entro 60 giorni dalla sua comunicazione per iscritto, e che nei successivi 180 giorni debba essere depositato il ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o debba essere comunicata alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione.

giovedì 14 febbraio 2013

Il licenziamento di dirigente apicale per riorganizzazione aziendale.



Il dirigente può essere legittimamente licenziato anche nel caso in cui le sue mansioni siano affidate ad altri colleghi con diverse posizioni lavorative e senza una situazione di crisi aziendale dichiarata. Così ha affermato la Cassazione in una recente sentenza (n°20856/2012).
Nel caso di specie il concetto di riorganizzazione aziendale diventa centrale ed assorbente di talché, qualora la detta riorganizzazione sia vera e non strumentale, diventa la leva per giustificare il licenziamento.
Con la predetta sentenza, la Corte di Cassazione fissa nuovi limiti per quanto concerne il licenziamento di un dirigente, che diventa legittimo per motivi di riorganizzazione aziendale, con la soppressione del posto da lui occupato, e che prevedono l'affidamento delle sue mansioni ad altri dirigenti che occupano un posizione lavorativa non sovrapponibile alla sua.
Se il dirigente viene licenziato e in azienda e non esiste più un incarico professionale esattamente uguale al suo e le sue mansioni vengono riassegnate ad altri soggetti, la chiusura del contratto è legittima. La sentenza n°20856/12 parla chiaro respingendo il ricorso di un direttore commerciale licenziato dall'azienda con la rassegnazione delle sue mansioni a due colleghi per la parte operativa, e al direttore marketing per quanto riguarda la gestione del personale.
Secondo la Corte Suprema, quindi, anche in assenza di impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro o di forte crisi aziendale, il licenziamento del manager può avvenire per ragioni oggettive che riguardano comunque le esigenze di riorganizzazione aziendale.
Il principio di correttezza e buona fede che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica garantita dall'art. 41 Cost. (Cass., n. 3628/2012). La Suprema Corte afferma che, per stabilire se il licenziamento di un dirigente intimato per ragioni di ristrutturazione aziendale sia giustificato, non è dirimente la circostanza che le mansioni da questi precedentemente svolte vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue proprie». Il licenziamento del dirigente è pertanto consentito in tutti i casi in cui la decisione è stata presa in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da "scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie".

venerdì 8 febbraio 2013

Trasferimento di azienda o di ramo d’azienda. – Scheda



Si ha cessione d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione, fusione, affitto od usufrutto, cambia la titolarità della azienda medesima.
L'art. 2112 del Codice Civile rubricato come 'Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda', e i suoi successivi Decreti Legislativi, intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che comporti un mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata.
La cessione può riguardare l'intera azienda o parte di essa e in questo caso si parla di trasferimento di ramo d'azienda.
Il trasferimento di un ramo di azienda è diventato uno strumento molto importante per le aziende che intendono attuare processi di ristrutturazione e esternalizzazione, nonché per diminuire il personale aziendale in esubero invece di avviare drastiche procedure di licenziamento.
Questo ultimo tipo di operazione è ammissibile solo se la parte di azienda che si intende trasferire è funzionalmente autonoma al momento della cessione o trasferimento, identificata come tale o dal cedente o dal cessionario al momento del trasferimento (l’individuazione del ramo d’azienda legittimamente trasferibile è tema molto controverso anche se ultimamente sembra che la giurisprudenza abbia trovato delle interpretazioni costanti al riguardo).
Come detto, quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro senza vi sia la necessità o l’obbligo di ottenere il consenso dei lavoratori interessati. La legge, quindi, tutela i lavoratori con diverse disposizioni specifiche, prevedendo che:

  • il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda;
  • il lavoratore conserva tutti i diritti che aveva precedentemente ottenuto con il vecchio datore, retributivi, economici, previdenziali e di altra natura purché compatibili con il nuovo assetto contrattuale/organizzativo;
  • il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione dei crediti sorti antecedentemente (art. 2112 C.C.);
  • nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;
  • il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento. Se il nuovo datore applica un CCNL di tipo diverso si dovrebbe procedere all’operazione di “armonizzazione” relativamente ai lavoratori interessati;
  • la cessione od il trasferimento d'azienda non può costituire un valido motivo di licenziamento;

Se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima, le rappresentanze sindacali. Queste possono avviare procedure di verifica necessarie alla tutela dei lavoratori, per evitare che il mancato rispetto della normativa possa eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili e così via.
Tra le molte si può citare la Corte di Cassazione, nella Sentenza n°21711 del 4 dicembre 2012, in cui si precisa che la cessione di ramo d'azienda può anche comportare la "smaterializzazione" o "l'alleggerimento" delle strutture, per esempio a causa delle innovazioni tecnologiche, ma comunque deve sussistere una struttura aziendale apprezzabile, composta da detti contratti, prima della cessione.
Circa il Tfr nell’ipotesi di cessione di azienda o di ramo d'azienda. La Cassazione, ribadendo la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.