Studio Legale Silva

lunedì 31 dicembre 2012

Il trasferimento del lavoratore. – scheda.



Il trasferimento del lavoratore consiste in uno spostamento definitivo e senza limiti di durata da una sede di lavoro ad un'altra (Cass. 23 aprile 1985, n. 2681), a differenza dell’istituto della “trasferta” che consiste in uno spostamento solo temporaneo.
Il trasferimento dei lavoratori è regolato rigidamente dalla legge. Più precisamente, l’art. 2103 c.c. dispone che il trasferimento possa essere attuato solo in presenza di "comprovate ragioni tecniche organizzative o produttive".
I trasferimenti, quindi, devono essere motivati da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e avvenire obbligatoriamente da unità produttiva ad un’altra unità produttiva nell’ambito della stessa azienda. In altre parole, il trasferimento presuppone che nonostante la modifica del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, resti invariato il datore di lavoro, a differenza dell’istituto del “distacco” in cui il lavoratore opera presso un datore di lavoro diverso.
Per giurisprudenza costante, quindi, un lavoratore può essere trasferito solo a condizione che l’azienda sia in presenza e possa dimostrare i seguenti presupposti:
·         l'impossibilità e/o inutilità dell’impiego di tale lavoratore nella sede di provenienza;
·         la necessità e/o opportunità della presenza di quel lavoratore, con la sua particolare professionalità, nella sede di destinazione;
·         la serietà e ragionevolezza delle ragioni che hanno fatto cadere la scelta proprio su quel lavoratore e non su altri colleghi che svolgano analoghe mansioni.
L’analisi della legittimità del trasferimento, peraltro, si deve limitare all’accertamento della sussistenza delle suddette ragioni tecniche, organizzative e produttive, mentre è insindacabile la scelta del datore di lavoro tra diverse soluzioni organizzative adottabili, che ineriscono questo o quel lavoratore ovvero questo o quel reparto.
La Giurisprudenza ha individuato (tra gli altri) ulteriori limiti rispetto a quelli legali. I principali sono:
·         i motivi di trasferimento devono sussistere al momento in cui viene deciso e non dopo;
·         le ragioni del trasferimento devono essere oggettive. Non valgono, ad esempio, le scelte fatte come sanzioni disciplinari a meno che la condotta del lavoratore non corrobori le ragioni tecniche, organizzative e produttive che convalidano il trasferimento (ad esempio, per incompatibilità con i colleghi che causa un danno produttivo e/o organizzativo);
·         deve sussistere un rapporto di causalità tra ragioni organizzative e lavoratore trasferito;
·         il trasferimento deve essere sempre finalizzato al miglior funzionamento dell’azienda e legata alle particolari attitudini del lavoratore a ricoprire il nuovo posto di lavoro.
Anche la contrattazione collettiva può stabilire ulteriori limitazioni (inseriti nei vari C.C.N.L.) al potere del datore di lavoro di disporre i trasferimenti e possono riguardare tutti i dipendenti o solo alcune categorie.
Ad esempio, sono legittimi i trasferimenti causati dall’apertura di una nuova filiale, da esigenze di incremento di organico nel luogo di destinazione e dall’esigenza di chiusura di reparti, mentre sono illegittimi i trasferimenti per un temporaneo aumento di attività.
Inoltre, se un C.C.N.L. subordina la legittimità di un trasferimento anche alla valutazione delle esigenze familiari del lavoratore, tale disposizione costituisce garanzia di cui il datore di lavoro deve tener conto.
Tutte queste ragioni debbono essere portate a conoscenza del lavoratore per iscritto, quantomeno in sintesi, prima del trasferimento. Si ritiene che un termine congruo possa consistere nel termine di preavviso al fine di informare per tempo il lavoratore al trasferimento.
Se la lettera non contiene l'indicazione delle ragioni e delle motivazioni, il lavoratore ha diritto di richiederle espressamente.
In mancanza delle condizioni sopra indicate, il trasferimento può essere illegittimo e può essere annullato dal giudice del lavoro, a cui l’interessato deve rivolgersi se ritiene di opporvisi.
La Legge 183/2010 (il c.d. Collegato Lavoro) ha introdotto dei termini di decadenza per l’impugnazione del provvedimento con cui il datore di lavoro dispone il trasferimento del lavoratore da una sede a un’altra (60 giorni).
In altre parole, trascorsi 60 giorni dal trasferimento, il provvedimento dell’azienda diventa definitivo e non può più essere contestato, in nessuna sede.
Il lavoratore che si oppone al trasferimento perché da lui considerato illegittimo, può anche rifiutarsi di ottemperare (eccezione di inadempimento ex art. 1460 C.C.), ma non può rifiutarsi di offrire la propria prestazione lavorativa all’azienda, ovviamente nella sede originale.
Nel caso in cui, invece, il lavoratore ottemperi se il provvedimento viene dichiarato illegittimo l’azienda dovrà anche risarcire i danni derivati dal trasferimento del lavoratore e della sua famiglia.

venerdì 28 dicembre 2012

Sanzioni disciplinari: scheda.



Per la validità delle sanzioni disciplinari occorre, preliminarmente, provvedere alla affissione del codice disciplinare (ossia l’estratto del contratto collettivo e l’eventuale regolamento aziendale relativi alle sanzioni disciplinari) in luogo accessibile ai lavoratori, anche non pubblico (es. mensa, spogliatoio, ecc.). Se il codice disciplinare non è affisso in ciascun unità produttiva la sanzione è radicalmente nulla e non vi è possibilità di convalida. Alternativamente, può anche essere consegnata a tutti i lavoratori, ma di ciò è necessaria una prova scritta.
Ogni infrazione rilevante ai fini disciplinari deve essere contestata tempestivamente (vale a dire che tra il fatto e la contestazione deve passare un lasso di tempo contenuto, sia pure quantificato in termine di giorni, soprattutto quando la fattispecie richiede ulteriori accertamenti).
La contestazione deve essere fatta per iscritto con lettera raccomandata AR (o raccomandata a mani); il fatto o i fatti oggetto della contestazione deve essere individuato con la massima precisione e debitamente circostanziato sia in termini di tempo che di luogo. Se esistono dei testimoni è opportuno procurarsi una loro dichiarazione scritta o comunque un verbale da essi sottoscritto in cui si descrive, con la maggiore accuratezza possibile, la dinamica dell’evento.
Il lavoratore ha diritto a un termine a difesa che non può mai essere inferiore a cinque giorni dal ricevimento della contestazione, durante i quali può presentare le proprie giustificazioni per iscritto o verbalmente. In questo secondo caso, è opportuno che sia presente una terza persona in funzione di testimone e che si proceda alla redazione di un verbale che si farà sottoscrivere all’interessato, all’estensore e al testimone. Copia del verbale potrà essere rilasciata all’interessato.
Il lavoratore a cui sia stato contestato un addebito disciplinare ha facoltà di scegliere se presentare le proprie giustificazioni o meno; nel primo caso, sarà facoltà del datore di lavoro tenerne conto ai fini della comminatoria della eventuale sanzione disciplinare. In ogni caso, se il datore di lavoro decide di applicare le sanzioni in presenza di giustificazioni del lavoratore, dovrà motivare la propria decisione, allegando le ragioni per le quali si ritenga di non accogliere le stesse.
Anche la lettera con la quale si comminano le sanzioni disciplinari deve essere inviata con raccomandata AR (o raccomandata a mani).
Il datore di lavoro che intenda procedere all’irrogazione della sanzione deve comunicarla al lavoratore tempestivamente (qualche CCNL quantifica i giorni) da quando questi ha presentato le sue giustificazioni o, se non lo ha fatto, dalla scadenza del termine a difesa (cinque giorni dal ricevimento della prima lettera di contestazione). Qualora il datore di lavoro ometta di applicare la sanzione sollecitamente o la ritardi troppo, si intenderà che abbia accettato, implicitamente, le giustificazioni addotte dal lavoratore. Un eventuale esercizio tardivo del potere disciplinare sarebbe soggetto alla declaratoria di nullità, per intervenuta decadenza.
La tipologia delle sanzioni prevede diverse figure che generalmente sono: il richiamo verbale, il richiamo scritto, la multa, la sospensione dal lavoro e, infine, il licenziamento disciplinare. I vari CCNL tipizzano gli illeciti e le relative sanzioni. Per comportamenti non previsti dalle norme contrattuali occorrerà applicare, per analogia, la fattispecie più appropriata.
E’ previsto l’istituto della recidiva, in cui incorre il lavoratore che sia incorso più volte in sanzioni disciplinari, anche diverse, nell’arco di un biennio "mobile", ossia conteggiato a partire dalla data della contestazione. Il CCNL prevede quando il recidivo possa essere colpito da una sanzione più grave di quella astrattamente prevista per la fattispecie concreta. Decorsi due anni, la sanzione disciplinare diviene inefficace ai fini della recidiva.
L’iter disciplinare (contestazione tempestiva del fatto, termine a difesa, irrogazione della sanzione) si deve seguire anche nel caso si intenda procedere a un licenziamento disciplinare, ferma restando, in questo caso, la facoltà del datore di lavoro di procedere a una sospensione cautelare (non disciplinare) dal lavoro qualora ricorrano gravi motivi. E’ovvio che durante il periodo di sospensione decorra comunque la normale retribuzione.
Qualora non voglia agire giudizialmente, il lavoratore può impugnare la sanzione entro venti giorni dalla sua applicazione, chiedendo, se il proprio CCNL lo prevede, la convocazione di un Collegio di Conciliazione e Arbitrato, nominando contestualmente il proprio arbitro e invitando il datore di lavoro a nominare quello di propria fiducia entro 10 giorni dal ricevimento della impugnativa.
Il lavoratore può, infine, procedere giudizialmente chiedendo preventivamente la convocazione della commissione per il tentativo obbligatorio di conciliazione e, in caso di mancato accordo, adire l’autorità giudiziaria.

giovedì 27 dicembre 2012

Contratti a tempo determinato: scheda.



Secondo le stime dell’ISTAT, i lavoratori a tempo determinato sono in totale circa 2,45 milioni comprendendo anche circa 515 mila somministrati.
Si definisce contratto a tempo determinato quello che prevede sin dall’inizio un termine finale e che ha quindi una durata prestabilita.
È importante sottolineare che il lavoratore a tempo determinato ha gli stessi diritti di quelli assunti a tempo indeterminato che svolgano la stessa attività o che abbiamo lo stesso inquadramento contrattuale. Gli spettano quindi le ferie, la gratifica natalizia, la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa, a meno che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto.
L’azienda deve anche rispettare il principio di non discriminazione, impartendo al lavoratore ad interim una formazione specifica in materia di sicurezza che gli permetta di esercitare al meglio la mansione per la quale è stato assunto.
Gode inoltre del medesimo trattamento previdenziale e degli stessi diritti in caso di malattia, infortunio, maternità ecc.
Il contratto a termine può essere stipulato per ragioni di ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro, tranne il primo che può essere siglato anche in assenza di tali motivazioni e per una durata massima di dodici mesi.
Non si può invece assumere lavoratori a termine determinato per sostituirne altri in sciopero, per le aziende che abbiano effettuato licenziamenti collettivi nei sei mesi precedenti l’assunzione, per le società ammesse alla Cassa Integrazione Guadagni e per quelle che non rispettano le normative sulla sicurezza sul lavoro.
L’assunzione deve poi risultare da atto scritto (una copia del quale deve andare al lavoratore entro cinque giorni dalla stipula) che specifichi il motivo del tempo determinato; quando tali spiegazioni non sono presenti, il contratto si considera a tempo indeterminato. Se però il contratto è inferiore a dodici giorni, la forma scritta non sarà necessaria.
Il termine finale del contratto può essere prorogato una sola volta se esso è inferiore a tre anni o nel caso sussistano ragioni oggettive. In ogni caso, la durata complessiva del rapporto (durata iniziale + proroga) non può superare i 3 anni.
Per quanto riguarda il primo contratto di lavoro a termine di durata non superiore a dodici mesi, stipulato in assenza delle ragioni di ordine tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (introdotto dalla Riforma Fornero), non può essere prorogato.
Quando il rapporto di lavoro supera i 3 anni, compresi di proroghe e rinnovi, esso diventa a tempo indeterminato a partire dalla scadenza dell’ultimo termine.
Due eccezioni riguardano i dirigenti e i lavoratori del settore del trasporto aereo per i quali le regole del contratto a termine sono differenti: massimo 5 anni per i primi, da 4 a 6 mesi per i secondi.
Se il lavoratore viene riassunto con contratto a termine entro 60 o 90 giorni dalla scadenza, a seconda che il primo contratto fosse di durata rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi, il secondo contratto viene considerato a tempo indeterminato.
Alcune categorie contrattuali sono dotate di una specifica disciplina e non risentono delle norme sui contratti a termine. Tali categorie sono: contratto di lavoro temporaneo, di inserimento, di apprendistato, tirocini, stages, lavoro “extra”, dirigenti e rapporti di lavoro tra datori di lavoro agricoli ed operai assunti a tempo determinato.
Il lavoratore assunto a tempo determinato non può essere licenziato prima della scadenza del termine se non per giusta causa o giustificato motivo: la disciplina è la stessa del lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato.

mercoledì 19 dicembre 2012

Part-time: trattamento economico e normativo.



L’ art. 4 del D.Lgs. n. 61/2000 afferma il principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo parziale che non devono ricevere un trattamento meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno, per il solo fatto di lavorare ad orario ridotto.
In base a quanto affermato dal Ministero del Lavoro (nota n. 45/2008) se il lavoratore a tempo pieno percepisce la retribuzione, nella sua parte fissa e variabile, in un’unica soluzione, con cadenza mensile lo stesso trattamento deve essere riconosciuto al lavoratore a tempo parziale.
Quindi ai lavoratori part-time devono essere riconosciuti gli stessi diritti dei lavoratori a tempo pieno per quanto riguarda:
·         La durata del periodo di prova, delle ferie annuali;
·         La durata del periodo di astensione per maternità – paternità;
·         La durata del periodo di comporto per malattia, infortuni sul lavoro e malattie professionali, fa eccezione il part-time di tipo verticale. Infatti, in questo caso la contrattazione collettiva può riproporzionare il periodo di conservazione del posto di lavoro in base alla quantità della prestazione effettiva. In mancanza di una previsione contrattuale, il riproporzionamento può essere fatto dal giudice secondo equità;
·         La durata del periodo di conservazione del posto di lavoro a fronte di malattie, infortuni sul lavoro, malattie professionali;
·         l'applicazione delle norme in tema di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro;
·         i diritti sindacali;
·         l' accesso ad iniziative di formazione professionale organizzate dal datore di lavoro;
·         l’accesso ai servizi sociali aziendali;
·         i criteri di calcolo delle competenze dirette e differite previste nei contratti collettivi;
·         i buoni pasto (che possono essere utilizzati da tutti i lavoratori subordinati a tempo pieno e a part-time durante la giornata lavorativa); la stessa amministrazione finanziaria riconosce sia ai lavoratori full-time, sia ai lavoratori a tempo parziale, l’esclusione dei buoni pasto dalla base imponibile fiscale e contributiva  nel limite di 5,29€.
Quello che deve essere riproporzionato in ragione della ridotta entità del lavoro prestato riguarda:
·         la retribuzione globale di fatto e le singole componenti di essa;
·         la retribuzione feriale;
·         i trattamenti economici in caso di malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità;
·         in caso di trasferta, deve essere riproporzionata quella parte di indennità di carattere retributivo e non quella avente carattere di rimborso forfettario delle spese sostenute.
Il trattamento contributivo riconosciuto al lavoratore a tempo parziale è lo stesso che viene riconosciuto ai lavoratori a tempo pieno.
Ciò che cambia è il calcolo del minimale contributivo; per i lavoratori a part time si procede a calcolare la retribuzione minima oraria quale base di calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Tale retribuzione si ottiene rapportando alle giornate di lavoro settimanale, il minimale giornaliero annualmente determinato dall’Inps e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale di lavoro settimanale previsto dal contratto collettivo di categoria per il tempo pieno.
Per il calcolo dei premi INAIL si deve scegliere la retribuzione oraria superiore tra quella minimale e quella tabellare, tale importo deve essere moltiplicato per le ore complessive da retribuire nel periodo assicurativo.
La retribuzione oraria tabellare è calcolata dividendo l’importo della retribuzione annua tabellare (che include solo le mensilità aggiuntive oltre alla paga base) prevista dai contratti collettivi nazionali, per le ore annue stabilite dagli stessi.
La retribuzione oraria minimale si ottiene moltiplicando il minimale giornaliero per le giornate di lavoro settimanale ad orario normale (sempre pari a 6); tale importo sarà diviso per le ore di lavoro settimanale ad orario normale previste dalla contrattazione collettiva (40 ore settimanali).
La retribuzione imponibile fiscale viene determinata dal sostituto d’imposta seguendo le stesse regole previste per i lavoratori a tempo pieno definite all’art. 41 del TUIR.