Studio Legale Silva

domenica 30 settembre 2012

Facebook in ufficio: licenziata (fonte: Corriere)

Padova, chattava oltre l’orario di lavoro e anche di sabato. Decisivo il calo di rendimento.

VENEZIA — Per un po’ era sembrata a tutti la dipendente ideale. Inchiodata al pc anche di sera ben oltre l’orario di lavoro, la si vedeva spesso in ufficio anche al sabato mattina, a ditta chiusa. Con l’andare dei mesi si è scoperto invece che, più che ideale, la ragazza era sì dipendete ma da social network. «Facebook su tutti ma non solo», spiega Patrizio Bernardo, legale di diritto del lavoro, doppio studio a Padova e Milano, che ha seguito il caso per conto dell’impresa. Com’è finita? Che la ragazza, trentenne, funzioni e responsabilità di livello medio-alto all’interno di un’azienda commerciale del Padovano piuttosto importante, è stata licenziata. «Il problema con la dipendente - spiega l’avvocato Bernardo - è emerso nel 2011. Abbiamo transato quest’anno, pochi mesi fa». Azienda e impiegata, in pratica, si sono accordate e alla donna è stata riconosciuta una sorta di buona uscita, pari a un tot di mensilità.
«Questo tipo di cause - ancora il legale - sono piuttosto complicate. Succede molto spesso che si chiudano con un accordo, che è anche il motivo per cui ricevono poca "pubblicità"». Le «complicazioni», se così vogliamo chiamarle, sono intanto il segreto epistolare, diritto tutelato dall’articolo 616 del codice penale. Poi c’è lo scudo dello Statuto dei lavoratori, che, all’articolo quattro, vieta il controllo a distanza sull’attività dei dipendenti «con impianti audiovisivi e altre apparecchiature». Se questo tipo di sistemi si rendono necessari per «esigenze produttive o per la sicurezza del lavoro», l’azienda li può installare solo ottenendo il placet della rappresentanza sindacale interna. In ogni caso il controllo a distanza è limitato tanto nella dimensione dello spazio, leggi perimetro del lavoro, la sede aziendale o l’ufficio, quanto nel tempo: verifiche completate prima o dopo l’orario di lavoro, comunque «lontane» dalla prestazione per cui uno è stipendiato, non sono consentite. Nel caso padovano, in più occasioni colleghi e superiori della ragazza licenziata avevano notato in lei espressioni divertite alla tastiera. Risate improvvise e sorrisino perenne non sono proprio quel che ci si aspetta da chi sbriga pratiche d’ufficio.
«Contemporaneamente - aggiunge Bernardo per spiegare la situazione - si era registrato un evidente calo della produttività della dipendente». Non è venuto a galla, comunque non era essenziale per la causa, il motivo per cui la giovane donna avesse scelto di chattare sempre o quasi con il computer aziendale, tanto da rientrare in ufficio al sabato (senza contare le ore serali passate al desk di lavoro in compagnia di Facebook e «amici» vari). Difficile pensare non avesse un pc a casa, ma così è andata. In ogni caso, la somma tra calo di rendimento e accessi in rete a pioggia ha portato alla fine del rapporto di lavoro. Quasi certo che la verifica del tempo di servizio speso a «socializzare» in rete si sia scontrata, in sede legale, con il già citato articolo quattro dello Statuto dei lavoratori. Da qui la transazione che ha messo la parola fine in calce alla pratica. C’è dell’altro, però. Un aspetto che trasforma la vicenda di cui sopra in una sorta di paradigma legale.
«Quella della perdita di tempo in orario di lavoro causa social network - ricorda Patrizio Bernardo - è davvero la frontiera più attuale nelle controversie tra aziende e dipendenti per ragioni telematiche. All’imprenditore, che si perdano cinque minuti chiacchierando su Skipe o Facebook, può anche interessare poco. Se però la cosa assume una dimensione differente, è chiaro, il peso è diverso». Anche per la complessità della procedura che si attiva, insomma, di fronte a una dose «minima» di lavoro consumata il socializzazioni virtuali, il datore preferisce chiudere un occhio. È un po’ come la pausa-sigaretta. Si sa che c’è e la si tollera, sul presupposto della fiducia tra dipendente e azienda. Venti «bionde» da tabaccare al giorno, però, diventerebbero per forza un problema. Il punto, però, è un alto. Il nostro legale conferma come negli Stati Uniti, culla di internet e dei social network che hanno «invaso» le vite di tutti, cambiando non poco le abitudini, cause come quella padovana siano davvero all’ordine del giorno. L’Italia e il Veneto, paragonate a Silicon Valley, sono fanciulli digitali. Ma anche qui, evidentemente, la tendenza sta prendendo forma.

martedì 25 settembre 2012

Il licenziamento per "poor performance" cioè per scarso rendimento


L’attuale situazione economica globale impone all’impresa di adoperare scelte volte a raggiungere il maggior grado di efficienza possibile. In tale contesto si inserisce una tematica di estremo interesse: il cosiddetto licenziamento per poor performance, ossia per scarso rendimento.

Tale fattispecie ha da sempre suscitato un ampio dibattito in merito alla relazione intercorrente tra prestazione lavorativa e rendimento.

Infatti, ci si è chiesti se la performance individuale sia un elemento in grado di concorrere a qualificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa o meno e in ogni caso in quale misura.

Senza dubbio può ritenersi superata l’idea che il lavoratore possa limitarsi a mettere le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro. Ciò in quanto si richiede altresì che la prestazione lavorativa sia eseguita con l’impegno e la professionalità media delle mansioni svolte, usando la diligenza richiesta dalla natura dell’attività assegnata al lavoratore ed osservando le disposizioni impartite dall’imprenditore.

In assenza di un riferimento normativo, la giurisprudenza ha da sempre avuto un ruolo determinante nella valutazione delle ipotesi di licenziamento a seguito di prestazioni insufficienti.

Ovviamente sono molti gli interrogativi e le problematiche che seguono tale impostazione. In particolare, in virtù della natura sinallagmatica del rapporto di lavoro può essere considerato legittimo il licenziamento di un lavoratore che non abbia raggiunto il quantum di risultato atteso dal datore di lavoro? E qualora tale soluzione fosse ammissibile, quali sono i limiti e gli oneri probatori entro cui è legittimo esercitare il recesso?

L’orientamento giurisprudenziale consolidato, se, da un lato, ha ammesso che il mancato raggiungimento di quanto oggettivamente esigibile possa essere considerato un inadempimento contrattuale, dall’altro, ha statuito che, affinché il provvedimento espulsivo possa essere considerato legittimo, debba sempre essere fornita prova degli elementi che tradizionalmente caratterizzano le fattispecie del giustificato motivo di licenziamento e dunque o l’aspetto soggettivo del notevole inadempimento contrattuale o il fattore oggettivo delle ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro, l’attività produttiva e il regolare funzionamento di essa.

Per quanto attiene al profilo dell’inadempimento soggettivo, la valutazione sull’opportunità di recedere dal rapporto dovrà tenere conto di numerosi aspetti. In particolare, poiché la prestazione lavorativa può essere influenzata da fattori socio-ambientali che esulano dalle singole capacità, è di assoluta importanza l’individuazione di un parametro di riferimento standard in grado di dimostrare l’oggettiva esigibilità di quanto atteso dal datore di lavoro. In tal caso, la prova è rinvenibile anche per presunzioni tramite la valutazione delle prestazioni medie degli altri lavoratori adibiti alle medesime mansioni nella stessa unità (Cass. 3 maggio 2003, n. 6747). Sicché, in ossequio a tale principio, si può ipotizzare di giungere presuntivamente alla dimostrazione della negligenza del lavoratore, facendo riferimento alla rilevante sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione e quanto dal lavoratore effettivamente realizzato (Cass. 22 gennaio 2009, n. 1632).

Allo stesso modo è stato ritenuto legittimo ed ammissibile il licenziamento per scarso rendimento nel caso in cui il lavoratore manifesti un atteggiamento negligente protratto nel tempo e non modificato a seguito dei richiami dei suoi superiori (Cass. 1° dicembre 2010, n. 24361).

Principi non meno rigorosi devono presiedere alla valutazione dello scarso rendimento, qualora si intenda attribuire ad esso rilevanza ai fini di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ad esempio, potrebbero costituire un giustificato motivo oggettivo “sopravvenuto”, una modifica della condizione fisica o mentale del lavoratore, che lo renda inidoneo alla mansione assegnatagli (sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in una posizione diversa) ovvero l’incapacità del lavoratore di adeguarsi all’introduzione di innovazioni tecnologiche nell’impresa tale da incidere negativamente sul regolare funzionamento dell’organizzazione produttiva.
In tali situazioni, il datore di lavoro è comunque onerato della dimostrazione di essersi attivato per prevenire o rimuovere situazioni ostative allo svolgimento dell’attività lavorativa che possano aver condizionato negativamente la prestazione del lavoratore (Cass. 9 aprile 2009, n. 8720).

Un campo, quindi, quello del licenziamento per poor performance sempre da valutare con estrema prudenza e con un’attenta disamina della sussistenza di adeguati supporti probatori.

giovedì 20 settembre 2012

Illegittimo il licenziamento del lavoratore che rifiuta il part time

La cassazione, con sentenza nr. 14833 dello scorso 4 settembre 2012, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento imposto al lavoratore per il rifiuto di quest’ultimo, di modificare l’orario di lavoro in part -time.

Il caso ha riguardato un lavoratore che proponeva giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società per essersi rifiutato di modificare il proprio orario di lavoro.

Sia il tribunale di primo grado che la Corte di Appello, annullavano il licenziamento intimato per mancanza di giusta causa o giustificato motivo ordinando alla detta società di reintegrare il lavoratore nel proprio posto di lavoro e condannandola al pagamento delle retribuzioni non corrisposte dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra sulla base della retribuzione globale di fatto pari ad euro 989,46 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

La società ricorreva in Cassazione. Secondo gli Ermellini, è pacifica la ricostruzione desunta dai documenti ritualmente acquisiti al processo, da cui emergeva che il licenziamento era stato adottato non già per ragioni inerenti all’attività produttiva – come sostenuto nell’appello dalla società – ma perché il lavoratore si era rifiutato di modificare l’orario di lavoro.

Tuttavia, non è possibile motivare un licenziamento accampando la scarsa flessibilità del lavoratore nell’accettare nuovi orari di lavoro. Per questi motivi, il licenziamento è da considerarsi illegittimo con reintegra del lavoratore.

lunedì 17 settembre 2012

Licenziata per un panino e una bibita

Quando l'eccesso diventa arbitrio e, conseguentemente, un fatto illegittimo da stigmatizzare.
Questo il caso di una dipendente di un supermercato che viene licenziata perché, secondo l’azienda, avrebbe preso un panino e una bibita per mangiarlo durante l’orario di lavoro ma senza pagarlo.
Non tanto perché, in base alle nuove norme della riforma Fornero, la lavoratrice – nel caso in cui il Tribunale a cui si è ovviamente subito rivolta le dia ragione – potrebbe essere liquidata con un indennizzo ma non reintegrata ma in quanto la mancanza di buon senso sia ormai una costante generalizzata in tutti i settore della vita quotidiana.
A Pescara, una delle addette al bancone della macelleria di un ipermercato prende da uno scaffale un panino e una bibita – non più di 3-4 euro di valore – e lo mangia in orario di servizio. Immediatemente – e prima della fine dell’orario di lavoro – gli viene contestato l’addebito (aver preso i prodotti senza autorizzazione e non averli pagati). E avviato un procedimento di licenziamento per giusta causa per il grave danno provocato.
Ora il termine grave, paradossalmente, potrebbe essere – forse – riferito più al danno di immagine di una dipendente che si prende una pausa per un boccone davanti ai clienti che non al danno economico in sè. Allora, una lettera di richiamo – visto che ne esiste la possibilità – parrebbe più che sufficiente. Ma va detto che la dipendente in questione nell’ipermercato di Pesacara che l’ha licenziata lavora da 14 anni. Se fosse stata un’indisciplinata o una piantagrane non sarebbe più lì da tempo. Viene ancora da pensare che il supermercato ha cercato un pretesto legale per scendere di una unità nella casella dei dipendenti, usufruendo della riforma Fornero.
La lavoratrice è stata raggiunta dalla seguente comunicazione:
“Gentile signora, il suo comportamento è stato di tale gravità da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto di lavoro in essere — le ha scritto la Magazzini Gabrielli Spa nella raccomandata del 16 agosto scorso — essendo venuto meno il rapporto di fiducia verso di lei. Pertanto, la informiamo di aver adottato nei suoi confronti il provvedimento di licenziamento disciplinare per giusta causa, con efficacia immediata”.
Staremo a vedere come evolve la situazione, aggiungendo solo che l'Azienda si è esposta ad un grave rischio giuridico, dato che la cosa è veramente oltre il limite, e mediatico, dato che la ripercussione non potrà sicuramente portare alcun vantaggio commerciale. 

giovedì 13 settembre 2012

I primi casi di licenziamenti per motivi economici secondo la riforma Fornero

Riforma Fornero, primi licenziati per “motivi economici”.

Il caso pilota nella filiale romana dell'azienda cinese Huawei

A poco più di un mese dall’entrata in vigore della legge Fornero (nella foto il ministro del Welfare), sono scattati i primi licenziamenti per motivi economici. La denuncia arriva dal sindacato Fistel-Cisl (che si occupa di telecomunicazioni), e riguarda due lavoratori del gruppo cinese Huawei Technologies della sede di Roma.
«Le lettere inviate ai due lavoratori - spiega a Metro il segretario della Fistel Cisl Giorgio Serao - hanno come oggetto la procedura conciliativa per licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nelle lettere Huawei ha giustificato il provvedimento sostenendo di voler risparmiare a causa della crisi del mercato». Ma secondo il sindacalista, «Huawei è una società in crescita, tanto da aver rilevato un ramo d’azienda di Fastweb e non può utilizzare la legge Fornero per sbarazzarsi dei lavoratori indesiderati».
Il sindacalista preannuncia quindi l’impugnazione dei licenziamenti, considerando la vicenda Huawei «un caso pilota».
Interpellata da Metro, l'azienda cinese non ha voluto rilasciare dichiarazioni rimandando al comunicato stampa, in cui nega il licenziamento, spiegando di aver avviato appunto una procedura di conciliazione. Ma come ribadisce Serao, «la procedura di conciliazione è una prassi necessaria prima di avviare il licenziamento secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 40, della legge Fornero».

lunedì 10 settembre 2012

La mail ingiuriosa al capo può comportare il licenziamento

Scrive una mail insultante verso il capo e perde il lavoro. Il licenziamento è confermato dalla Cassazione (sentenza 14995/12).
Un lavoratore è stato licenziato in tronco da una azienda per aver spedito e-mail dal contenuto ingiurioso all’ad della società, al direttore del personale e al suo diretto superiore.
A sua discolpa, l’impiegato ha sempre sostenuto di essersi sentito svuotato dalle mansioni e di avere inviato le mail «turbato per l’emarginazione».
Secondo la Cassazione «la gravità delle espressioni utilizzate travalicano il diritto di cronaca e sono riconducibili a ingiuria e diffamazione».
Le mail con gli insulti erano state inviate «lucidamente» dal dipendente che, come sostenuto dalla difesa, voleva appunto manifestare per iscritto il disappunto per l’emarginazione subita.
Il licenziamento era stato convalidato dal Tribunale e dalla Corte d’appello.
Inutile il ricorso del lavoratore in Cassazione. La Suprema Corte ha osservato che «la corte d’appello, dopo avere evidenziato il contenuto offensivo del messaggio e la sua diffusione tra più persone che non erano solo i diretti destinatari, ha spiegato, con motivazione congrua, che erano condivisibili le argomentazioni sul carattere proporzionato della sua sanzione esplusiva, in considerazione delle gravità delle espressioni usate che travalicano il diritto di cronaca».
Il dipendente dovrà sborsare anche tremila euro per le spese processuali.

mercoledì 5 settembre 2012

Il casellante che si "sbaglia" tre volte a dare il resto


Può essere licenziato il casellante che si "sbaglia" tre volte a dare il resto all'automobilista, sempre in suo favore e senza che i soldi finiscano nella cassa della società Autostrade per l'Italia.
È quanto è successo al ricorrente (sentenza della Cassazione n°14145/2012) che nel periodo di ferie, dal 30 giugno al 26 luglio, forse contando sulla distrazione pre-vacanza degli accaldati clienti, aveva deciso di "fare la cresta" sul resto da dare agli automobilisti che pagavano il pedaggio.
Una "distrazione" che si era verificata tre volte e non era passata inosservata. Dopo le segnalazioni dei clienti, attenti malgrado la stanchezza e il miraggio della spiaggia, la società Autostrade aveva assoldato uno 007 per controllare i movimenti del dipendente.
L'investigatore non aveva dovuto fare chissà quali indagini: era stato sufficiente controllare il biglietto dei vacanzieri e verificare quanto era stato pagato per il pedaggio.
La conclusione dell'"inchiesta" aveva portato al verdetto di colpevolezza.
Dare per tre volte il resto sbagliato, in un breve lasso, di tempo era sospetto, soprattutto se i soldi presi in più non erano nella cassa, come doveva avvenire in caso di un errore fatto in buona fede.
D'accordo anche la Cassazione che ritiene leso il vincolo di fiducia con il datore di lavoro, anche in considerazione della delicatezza dell'incarico svolto.

lunedì 3 settembre 2012

Licenziamento del bancario "infedele". (Fonte Sole 24 Ore)

Per il bancario «infedele» è legittima la sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa. A precisarlo la sentenza della Corte di appello di Caltanissetta depositata lo scorso 1° agosto (presidente Perriera, relatore Catalano). Coinvolto un dipendente di una banca che avrebbe leso la fiducia dell'istituto di credito compiendo una serie di operazioni non consentite. In particolare, aveva aumentato il limite della propria carta di credito, non aveva valorizzato gli introiti alla chiusura di cassa, contabilizzando arbitrariamente delle somme che poi avrebbe prelevato dal cassetto.
Avviata un'ispezione, la banca invia al lavoratore una lettera di contestazione disciplinare, che poi sfocia nel licenziamento per giusta causa. Soccombente in primo grado, il bancario si vede respingere il ricorso anche in appello. In pratica, la Corte afferma di riconoscere la gravità del suo comportamento, che ha leso irrimediabilmente l'affidamento riposto dalla banca e dai clienti nella lealtà e correttezza del dipendente. Dunque, prosegue la sentenza, il licenziamento inflitto appare l'unico provvedimento disciplinare idoneo a sanzionare il comportamento del bancario, anche in considerazione della particolare posizione che egli ricopre all'interno della banca e della consapevolezza e conoscenza delle regole bancarie.
Inoltre, precisa l'estensore, la contestazione disciplinare deve ritenersi tempestiva perché non solo è intervenuta a meno di un mese dall'accertamento ispettivo, ma rientra nel potere disciplinare del datore di lavoro quello di contestare una serie di atti convergenti in un'unica condotta da valutarsi in maniera globale e unitaria, anche se risalenti nel tempo (Cassazione 15649/2010). Infine, anche il principio di proporzionalità della sanzione applicata appare legittimo poiché la valutazione della sua sussistenza va operata con riferimento non già ai fatti astrattamente contestati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del rapporto, alla posizione delle parti, al grado dell'affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata oggettiva dei fatti stessi. Del resto, tali connotati – specialmente l'elemento fiduciario – assumono il massimo rilievo nel lavoro bancario e vanno considerati con rigore, a prescindere dal verificarsi di un effettivo danno patrimoniale.
Una pronuncia che ricorda la sentenza n. 2013/2012 per cui, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, l'inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento è identificabile in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali. Nella vicenda, tuttavia, il bancario contesta la sanzione disciplinare applicata, dato che il lavoratore era stato comunque sottoposto a verifiche periodiche da cui non era emersa alcuna anomalia.