Studio Legale Silva

mercoledì 27 giugno 2012

Offese al capo, non sempre scatta il licenziamento (fonte: La Stampa)

Non è licenziabile il dipendente che offende il capo, se tale condotta, seppur «spiacevole e inopportuna» non è di «una tale gravità da poter compromettere il rapporto fiduciario tra le parti». Lo afferma la Cassazione (sentenza 10426/12) confermando la decisione della Corte d’appello dell’Aquila che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un uomo, accusato di aver rivolto una frase irriguardosa ad un suo superiore.
Il caso: era stata solo una «intemperanza verbale» senza altri comportamenti «scorretti, inidonea a dimostrare una volontà di insubordinazione o di aperta insofferenza nei confronti del potere disciplinare e organizzativo del datore di lavoro», quindi la condotta «ben poteva essere sanzionata con una misura non a carattere espulsivo».
La frase «era stata pronunciata in un contesto non di contrapposizione, ed era stata preceduta da affermazioni di ordine scherzoso» e le parole ingiuriose non erano, secondo la ricostruzione dei giudici, rivolte direttamente al superiore «che distava circa 15 metri». La lite giudiziaria era scaturita soprattutto dal fatto che l’offesa aveva urtato il capufficio in quanto donna. Però la Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda. La contrattazione collettiva «prevede come sanzione il recesso solo se il diverbio litigioso è seguito dal ricorso a vie di fatto, nel recinto dello stabilimento e che rechi grave pregiudizio alla vita aziendale». L'episodio, «rimasto nei limiti di una intemperanza verbale» è «stigmatizzabile», ma non meritevole di licenziamento. L’azienda dovrà anche rifondere l’avvocato del dipendente con 2.500 euro.

martedì 19 giugno 2012

Licenziamento disciplinare: i cinque giorni, ex art. 7 Statuto dei Lavoratori, decorrono dall'audizione del lavoratore.


È dall'audizione del lavoratore che decorre il termine per valutare il licenziamento disciplinare. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 5116 depositata il 30 marzo scorso.
La vicenda
Coinvolto nei fatti un lavoratore licenziato per motivi disciplinari, a cui era stata addebitata una sanzione disciplinare nei termini previsti dalla contrattazione collettiva. Sia il giudice di primo grado, sia quello d'appello avevano accolto il ricorso dichiarando l'invalidità del licenziamento e, conseguentemente, condannando l'azienda alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.
La società aveva fatto ricorso in Cassazione affermando, viceversa, la tempestività del licenziamento disciplinare nel termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, a prescindere dall'audizione del lavoratore.
L'avviso della Cassazione
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, sostenendo innanzitutto che la contrattazione collettiva può prevedere termini di maggior favore al lavoratore per irrogare il licenziamento disciplinare. In secondo luogo - continuano i giudici – se il lavoratore chiede di essere ascoltato nei cinque giorni successivi alla contestazione dell'addebito disciplinare, il termine per procedere al licenziamento non decorre più dall'addebito, ma dall'audizione (o il giorno fissato per l'audizione) del lavoratore incolpato.
È solo dopo l'audizione, che il datore di lavoro può procedere a valutare le eventuali giustificazioni addotte dal dipendente e quindi può determinarsi se adottare, o no, il provvedimento disciplinare. In sostanza, il periodo di tempo tra il termine previsto dal quinto comma dell'articolo 7 dello Statuto dei lavoratori, perché il lavoratore possa comunicare le proprie giustificazioni, e la data eventualmente fissata per l'audizione al fine di illustrare le proprie giustificazioni, è neutro e quindi non rileva ai fini della tempestività del provvedimento disciplinare. Una lettura che si pone in contrasto con la recente sentenza 1884 del 9 febbraio scorso.
In particolare, la stessa Corte, richiamando la pronuncia delle sezioni unite 6900/2003, rigetta il ricorso del lavoratore affermando il principio per cui il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato decorso il termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, senza che assuma rilevanza la difesa del lavoratore.
Del resto - conclude la sentenza - la legge non assegna alcun rilievo alla valutazione di tali difese da parte del datore di lavoro, e quindi al processo di formazione della sua volontà per l'esercizio del potere disciplinare, perché il controllo della legittimità della sanzione eventualmente adottata resta comunque affidato al sindacato giudiziale mediante l'impugnazione del provvedimento.

giovedì 14 giugno 2012

Lavoro, licenziamento disciplinare più facile per le violazioni gravi.

 Fonte:  Il Sole 24 Ore

Quando il lavoratore viola doveri fondamentali connessi al suo rapporto di lavoro contravvenendo alle norme deontologiche di base, la sanzione conseguente può essere comminata anche se essa non è prevista nel codice disciplinare esposto in luogo accessibile a tutti dipendenti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione (sentenza n. 9644/2012 depositata il 13/06/2012 cassando una pronuncia della Corte di appello di Napoli (sezione lavoro) che aveva appunto dichiarato l'illegittimità della sanzione (sospensione dal servizio e dalla retribuzione per due giorni) emessa - inflitta in primo grado dal tribunale di Benevento - a seguito del fatto che, durante un normale controllo sul luogo di lavoro (l'agenzia delle Entrate di Benevento), un dipendente non era stato trovato sul luogo di lavoro nonostante avesse regolarmente timbrato il cartellino. E questo perché non risultava affisso il codice disciplinare ex articolo 7 della legge 300/1970; con la conseguente condanna della stessa Agenzia al risarcimento del danno e alle spese del doppio grado di giudizio.

La Corte di cassazione ha quindi riconosciuto che in tema di sanzioni disciplinari «la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il procedimento disciplinare faccia riferimento a situazioni che concretizzano una violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro». E che, ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari, «non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione». Ne consegue che simili comportamenti sono punibili «a prescindere dalla loro inclusione o meno all'interno del codice disciplinare».

lunedì 4 giugno 2012

Licenziamento disciplinare, il datore può sentire il dipendente fuori dall'orario e sede di lavoro
Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 1° giugno 2012 n. 8845. Fonte: Sole 24 Ore
 
Nell’ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il datore di lavoro non ha l’obbligo di ascoltare il dipendente che ne abbia fatto richiesta nella sua sede e nell’orario di lavoro, ma può convocarlo anche altrove e fuori dell’orario di impiego purché ciò, per le difficoltà del caso, non si traduca in un violazione del diritto di difesa.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 8845/2012, respingendo il ricorso di un dipendente delle Poste contro la sentenza della Corte di Appello di Brescia che confermava il licenziamento disciplinare di un postino per reiterati inadempimenti (insubordinazione, ritardo nelle consegne, accumulo di giacenza, ritardo o assenza sul lavoro).
Infatti, spiega la Corte ove il datore di lavoro “abbia convocato il lavoratore, questi non ha diritto ad un diverso incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stesso risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile”. Caso che non ricorre nella specie perché la richiesta era quella di incontrarsi poco dopo gli orari di lavoro negli uffici dell’azienda preposti allo scopo.
Con riguardo poi al supposto ritardo nella contestazione, la Cassazione chiarisce che “il principio di immediatezza della reazione disciplinare ha carattere relativo, ed il relativo apprezzamento è riservato al giudice di merito”.
 Infine, “ben può il datore di lavoro, come affermato nella sentenza impugnata, contestare unitariamente al lavoratore una serie di infrazioni omogenee, e, come nella specie, commesse in un ristretto ambito temporale (due mesi circa) al fine di valutare nel modo più appropriato la natura e la gravità della condotta, conseguendone anche la necessità per il giudice di merito di una valutazione complessiva della loro incidenza sul rapporto di lavoro”.
Così, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi il giudice di merito “deve esaminarli non partitamente ma globalmente al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente”.

venerdì 1 giugno 2012

Licenziamento ingiustificato, l'opzione del risarcimento preclude altre strade (Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 31 maggio 2012 n. 8688). Fonte: Sole 24 ore.
 
Illegittimo il cumulo di risarcimenti da licenziamento quando il lavoratore si è avvalso del diritto d’opzione che consente in luogo del reintegro di percepire 15 mensilità calcolate sull’ammontare dell’ultima retribuzione. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 8688/2012.

Il caso era quello di un dipendente licenziato prima della scadenza apposta al contatto a termine che poi di fronte all’offerta ricevuta dal datore di riprendere la prestazione - a seguito dell’invio di una lettera in cui eccepiva la nullità del contratto e la sua trasformazione a tempo indeterminato - si rifiutava di tornare a lavoro scegliendo l’opzione delle 15 mensilità prevista dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. A quel punto l’azienda lo licenziava nuovamente adducendo l’esistenza di una giusta causa.

Secondo la Corte “il rapporto si è sciolto per una convergente volontà delle parti” per cui il lavoratore “non può logicamente pretendere di cumulare il risarcimento derivante da un primo recesso ritenuto illegittimo con quello di un secondo licenziamento di cui assume a tempo stesso l’illegittimità per avere egli stesso ritualmente esercitato la facoltà riconosciuta dall’ordinamento di sostituire il diritto alla reintegrazione con l’indennità prevista”.