Articolo 18, al giudice la decisione sul reintegro nei casi di manifesta
insussistenza del motivo oggettivo
Se il giudice accerta “la manifesta insussistenza del fatto” che sorregge il giustificato motivo addotto dall’azienda per il licenziamento, può decidere di applicare la tutela reale o quella obbligatoria, secondo criteri che però non risultano in alcun modo puntualizzati o delimitati.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Il comma 7 prevede quattro ipotesi. La prima riguarda l’accertamento
giudiziale dell’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo
oggettivo: a) al lavoratore ritenuto inidoneo alle mansioni per malattia fisica
o psichica; b) al lavoratore non più idoneo al disimpegno delle mansioni per
infortunio sul lavoro o malattia professionale, ma utilizzabile in mansioni
equivalenti o inferiori, in violazione del disposto del comma 4 dell’articolo 4
della legge 12 marzo 1999, n. 68; c) al disabile obbligatoriamente assunto,
quando risulti scoperta la quota di riserva, in violazione del disposto del
comma 4 dell’articolo 10 della stessa legge; d) al lavoratore per superamento
del periodo di comporto. Si applica il regime di tutela previsto dal comma 4,
quindi la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro
al risarcimento del danno come ivi disciplinato.
La seconda ipotesi ricorre quando il giudice accerta “la manifesta
insussistenza del fatto” che sorregge il giustificato motivo addotto. In tal
caso, il giudice può applicare o la tutela reale o quella obbligatoria prevista
dal comma 5. I criteri cui va ispirata la scelta tra l’una o l’altra sanzione
non risultano in alcun modo puntualizzati o delimitati, ad onta delle più
elementari esigenze di certezza.
Ancora più criticabile è l’adozione di un criterio, quello della “manifesta
insussistenza” della ragione oggettiva addotta, che contraddice il comune
rilievo secondo cui il motivo economico o esiste o non esiste, non essendo
suscettibile di graduazione, diversamente dalla condotta umana, che può essere
più o meno grave, sia sotto il profilo fattuale, che psicologico. Se, disposta
l’esternalizzazione del servizio di trasporto della merce prodotta, il
licenziamento viene intimato per soppressione del reparto che vi provvedeva, è
decisivo accertare se la corrispondente attività sia effettivamente cessata. Se
in giudizio emerge il contrario, anche parzialmente, il motivo economico
invocato semplicemente non esiste.
Non sembra pensarlo il legislatore, se è vero che la terza situazione
ipotizzata è quella che si verifica quando il giudice accerta che “non ricorrono
gli estremi” del giustificato motivo addotto. Alla fattispecie si applica la
tutela obbligatoria prevista dal comma 5, implicante la risoluzione del rapporto
e la condanna la risarcimento del danno.
Dunque, dovendo darsi un senso alla previsione rispetto a quella della
manifesta insussistenza della ragione giustificatrice, il legislatore sembra
riferirsi al caso in cui il motivo addotto esiste e risulta provato
(nell’esempio, una parte della produzione viene distribuita da terzi), ma,
nondimeno, esso non giustifica la determinazione espulsiva. Ma quando ed
a quali condizioni è possibile ritenere che ciò accada, oltretutto senza
sconfinare nel sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e
produttive del datore di lavoro? In realtà, l’unica ipotesi certa ricompresa
nella previsione è quella, peraltro di concreto rilievo operativo, del
licenziamento illegittimo per il mancato assolvimento dell’onere della prova
dell’impossibilità di procedere al repechage.
La norma precisa che, nell’individuazione del numero di mensilità da
attribuire, il giudice tiene conto, oltre che dei criteri di cui al comma 6, in
realtà 5, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova
occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di
conciliazione di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sulla
quali infra.
La quarta ipotesi ricorre quando il licenziamento per giustificato motivo
oggettivo dissimula un licenziamento determinato da ragioni discriminatorie o
disciplinari: la tutela è quella propria delle corrispondenti fattispecie.
L’accertamento presuppone una specifica domanda del prestatore, ritualmente
incardinata con il ricorso introduttivo della lite: il riferimento al “corso del
giudizio”, in sostanza, non attiene alla domanda, ma alla fattispecie, dovendo
escludersi che la deviazione dalle regole del rito speciale possa prescindere da
una compiuta e chiara indicazione.
Il comma 1 dell’articolo 13 ha sostituito il comma 2 dell’articolo 2 della
legge 15 luglio 1966, n. 604, prevedendo che “la comunicazione del licenziamento
deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”. In
sostanza, il giustificato motivo oggettivo deve essere necessariamente
esplicitato nella lettera di comunicazione del licenziamento. La violazione
della prescrizione comporta l’inefficacia del recesso, con applicazione della
sanzione e delle situazioni previste dal comma 6.
Procedura di conciliazioneA sua volta, l’articolo 7 della legge n.
604 del 1966, come sostituito dal comma 4 dell’articolo 13, stabilisce che
l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo in regime di
tutela reale deve essere preceduta da una procedura obbligatoria di
conciliazione innanzi all’omonima Commissione provinciale, presso la Direzione
territoriale del lavoro del luogo di svolgimento della prestazione. In
particolare, il datore di lavoro deve inviare a tale Direzione una
comunicazione, trasmessa per conoscenza al lavoratore, contenente la
dichiarazione dell’intenzione di procedere al licenziamento e l’indicazione dei
relativi motivi, oltre alle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione
del prestatore. La Direzione, ai sensi del comma 3, è tenuta a convocare
entrambe le parti nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della
richiesta. Innanzi alla Commissione le parti possono farsi assistere da un
sindacalista, da un Rsa, da un avvocato o da un consulente del lavoro. La
procedura deve concludersi entro 20 giorni dal momento in cui la Direzione
territoriale ha trasmesso la convocazione per l’incontro, salvo che le parti non
siano d’accordo per la prosecuzione della discussione al fine di raggiungere un
accorso. Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, il datore di lavoro
può intimare il licenziamento, che può comunque intervenire una volta “decorso
il termine di cui al comma 3”, cioè se la Direzione non attiva tempestivamente
la convocazione. Se le parti addivengono alla risoluzione consensuale del
rapporto, il lavoratore ha diritto alla percezione della nuova indennità mensile
di disoccupazione; nella conciliazione può essere previsto l’affidamento del
lavoratore ad un’agenzia di somministrazione, per favorirne la rioccupazione. Il
complessivo comportamento tenuto dalle parti, emergente dal verbale stilato
dalla Commissione, è valutato dal giudice ai fini del regolamento delle spese di
lite e della misura dell’indennità risarcitoria prevista dal comma 8, in realtà
7, dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori.
La previsione, che dimostra la perdurante fiducia riposta dal Legislatore
nell’efficienza dell’Organo periferico del ministero del Lavoro, in contrasto
con la realtà emersa dalla prassi in precedenti esperienze, richiede due
precisazioni. La prima attiene alla rilevanza della motivazione dell’adottando
licenziamento rispetto a quella che dovrà poi accompagnare l’atto espulsivo in
ipotesi di insuccesso del tentativo o di suo mancato espletamento. Appare
corretto ritenere che il nucleo essenziale della ragione addotta debba rimanere
immutato e che siano, invece, irrilevanti le eventuali variazioni di contorno.
Ove non venga rispettata la prima condizione, il lavoratore può allegare, in via
alternativa o cumulativa, l’inefficacia del licenziamento ai sensi dell’articolo
7 cit. o dell’articolo 2 della legge n. 604 del 1966, in entrambi i casi con la
sanzione prevista dal comma 6 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori. La
seconda precisazione è che i benefici formalizzati per l’ipotesi di
conciliazione non sembrano presentare peculiarità rispetto a quelli ottenibili
dal lavoratore licenziato per ragioni economiche che non sia addivenuto alla
transazione.
La violazione della procedura prevista dall’articolo 7 determina, come
anticipato, l’inefficacia del licenziamento ed è sanzionata secondo il disposto
del comma 6. La sanzione colpisce sia il licenziamento non preceduto
dall’invio della comunicazione alla Direzione provinciale, sia il licenziamento
tempestivamente preannunciato, ma privo di motivazione.
L’opzione in sostituzione della reintegrazione
Il comma 3 del nuovo articolo 18 Statuto dei lavoratori conferma il diritto
potestativo del lavoratore che abbia ottenuto la reintegrazione nel posto di
lavoro di optare per l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, che si
aggiungono al risarcimento del danno. La norma chiarisce, innovando principi
giurisprudenziali consolidati, che la richiesta comporta la risoluzione del
rapporto di lavoro da quando è legalmente conosciuta dal datore di lavoro; che
detto momento segna la cessazione dell’obbligo di pagamento della retribuzione;
che l’indennità non è assoggettata a prelievo previdenziale; che la richiesta è
rituale e tempestiva se effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del
deposito della sentenza da parte della Cancelleria o dall’invito datoriale a
riprendere il servizio che preceda la richiamata comunicazione. Rimane per il
resto confermata l’attuale disciplina, emergente dall’elaborazione
giurisprudenziale.
Licenziamento collettivo per riduzione di personale
La riforma ha introdotto due modifiche alla procedura di attuazione del
licenziamento collettivo, disciplinata dalla legge 23 luglio 1991 n. 223. La
prima coinvolge il comma 9 dell’articolo 4, statuendosi che la comunicazione
dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, a favore dei destinatari
normativamente previsti, deve essere effettuata dal datore di lavoro non più
contestualmente all’intimazione dei licenziamenti, ma entro sette giorni. La
seconda, attuata attraverso l’inserimento di un comma finale al medesimo
articolo 4, abilita le parti collettive a sanare i vizi della comunicazione di
cui al comma 2, ad ogni effetto di legge, con l’accordo sindacale concluso nel
corso della procedura.
Una terza modifica è finalizzata ad adeguare al nuovo testo dell’articolo 18
Statuto dei lavoratori le conseguenze dei licenziamenti ritenuti illegittimi o
inefficaci. L’intimazione del licenziamento in forma orale è sanzionata con la
reintegrazione nel posto di lavoro e con la condanna al risarcimento del danno,
ai sensi del comma 1 della norma statutaria. Il licenziamento adottato in
violazione della procedura sindacale disciplinata dall’articolo 4 comporta le
sanzioni previste per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dal
comma 7 dell’articolo 18 Statuto dei lavoratori, con le problematiche
identificative prima richiamate. Il licenziamento intimato in violazione del
criteri di scelta è sanzionato con la tutela reale prevista per i licenziamenti
disciplinari illegittimi dal comma 4.
L’impugnazione del licenziamento viene assoggettata alle modalità dettate
dall’articolo 6 della legge n. 604 del 1966. Il secondo termine decadenziale
previsto da detta norma è ridotto a 180 giorni dagli iniziali 270, alla stregua
dell’articolo 13 della legge di riforma, limitatamente ai licenziamenti
successivi all’entrata in vigore della legge stessa.