Studio Legale Silva

mercoledì 18 dicembre 2013

Il contratto a progetto. Caratteristiche e particolarità.

La disciplina del contratto a progetto è stata introdotta dal D. Lgs. 276/03 (che impropriamente è stata chiamata "Legge Biagi").

Come è noto, questa tipologia di rapporto riguarda una moltitudine di lavoratori, solitamente inseriti di fatto nell'organizzazione aziendale ma senza essere lavoratori subordinati. A seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n°276/2003 la legge ha stabilito che questi lavoratori vengano definiti lavoratori a progetto: infatti, ciò che caratterizza questo tipo di rapporto è l'esistenza di uno specifico progetto assegnato al collaboratore con il compito di realizzarlo.

Il rapporto lavorativo, a differenza di quello subordinato, è gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività.
Quanto si è detto non trova applicazione nei confronti delle prestazioni occasionali, né trova applicazione nei confronti delle professioni intellettuali per le quali è richiesta la relativa iscrizione all’albo (commercialisti, avvocati, etc.). Su questo aspetto la normativa prevede che tale esclusione riguardi le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali per l’esercizio delle quali l’iscrizione in appositi albi è necessaria per lo svolgimento dell’attività. Al contrario, la generica iscrizione ad un albo professionale da parte del collaboratore non è di per sé idonea all’esclusione del rapporto dal campo di applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto.

Il contratto deve essere stipulato in forma scritta e, ai fini della prova, deve contenere: l'indicazione della durata (determinata o determinabile) della prestazione, la descrizione del progetto con indicazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato che si intende conseguire, il corrispettivo e i criteri della sua individuazione (tempi e modalità di pagamento), le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione della prestazione lavorativa, nonché eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore.

I contratti di lavoro a progetto terminano e si concludono al momento della realizzazione del progetto che ne costituisce l'oggetto.
Peraltro, per effetto della L.n°92/2012, le parti possono recedere anticipatamente solo per giusta causa. La riforma precisa, altresì, che:
  • il committente possa recedere quando siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto:
  • il collaboratore possa recedere, dandone preavviso, quando tale facoltà sia prevista dal contratto individuale di lavoro.

Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito. La L.n°92/2012 ha modificato anche questo aspetto della normativa: mentre, infatti, in precedenza, il compenso doveva tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto, dal 18/07/2012 in poi, esso non potrà essere inferiore ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva in modo specifico per ciascun settore di attività e, in ogni caso, sulla base dei minimi salariali applicati nel settore nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati. Lo stesso legislatore precisa che, in assenza di specifica contrattazione collettiva, il compenso del lavoratore a progetto non potrà essere inferiore alle retribuzioni applicate a figure professionali affini.

In caso di gravidanza, di malattia e di infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, negli altri due casi, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile. Il collaboratore a progetto, salvo diverso accordo tra le parti, può svolgere la sua attività a favore di più committenti, non in concorrenza tra loro. Inoltre, il collaboratore non può diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e alla organizzazione, nonché compiere atti in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.

Ciò che caratterizza il lavoro a progetto è proprio la sua riconducibilità ad uno specifico progetto. Se, nella realtà di fatto il progetto non dovesse affatto esistere o non sia sufficientemente specifico, le conseguenze sono molto gravi. L’art. 69, 1° comma, del D.Lgs. 276/2003 prevede che, sia in caso di assenza del progetto sia in caso di loro formulazione generica, la conseguenza, che dovrà essere dichiarata dal Giudice del Lavoro, è la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di stipulazione del contratto.

Se il contratto a progetto, come spesso accade, in realtà maschera un rapporto di lavoro subordinato si verificano, anche in questo, caso gravi conseguenze per l'azienda.

Ogni volta che le concrete modalità di svolgimento di un rapporto formalmente a progetto sono riconducibili al lavoro subordinato, il lavoratore ha diritto, nel corso o alla fine del rapporto di lavoro, di richiedere l’accertamento giudiziale dell’effettiva natura del rapporto stesso.

A fronte di una simile richiesta il Giudice del Lavoro, non essendo per nulla vincolato dal contenuto letterale dell’accordo, può e deve esaminare quali siano state, in concreto, le modalità di svolgimento del rapporto lavorativo e se, nel caso di specie, sussistano gli indici della subordinazione elaborati dalla giurisprudenza (inserimento organico nella struttura imprenditoriale, assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, obbligo di rispettare un orario di lavoro, obbligo di concordare permessi e ferie, ecc.).


Nel caso in cui il Giudice accerti che il rapporto, anche se qualificato come Co.Co.Pro., ha in realtà natura subordinata, lo dichiarerà tale. Il lavoratore potrà quindi rivendicare tutti i diritti conseguenti sia di natura retributiva sia di natura contributiva ed il risarcimento del danno.

venerdì 18 ottobre 2013

L'uso abusivo della mailing list aziendale per messaggi sindacali può portare al licenziamento.

Utilizzare la mailing list aziendale per trasmettere messaggi sindacali critici nei confronti della direzione aziendale integra una condotta rilevante dal punto di vista disciplinare.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte nella sentenza 10 settembre 2013, n. 20715.
Nella fattispecie, un dipendente di un importante gruppo editoriale, dirigente e rappresentante sindacale, è stato licenziato in tronco per essersi appropriato dell'indirizzario della società con la sua password di accesso e averlo installato sul computer del Sindacato di appartenenza per l’invio di e-mail agli altri dipendenti e collaboratori.

In particolare, tale condotta era stata qualificata nella lettera di licenziamento come ultimo grave episodio di "...un comportamento tenuto per anni, caratterizzato da una costante radicale contrapposizione nei confronti della Direzione aziendale...".

Sostiene la Suprema Corte che correttamente il giudice del merito ha qualificato tale licenziamento come legittimo. Lo specifico fatto contestato, infatti, pur non potendo costituire una giusta causa di recesso in tronco, se inquadrato nell'ambito di una situazione conflittuale sintomatica di una crescente insofferenza del lavoratore rispetto alle indicazioni dei vertici aziendali, configura un giustificato motivo soggettivo di recesso.

Né può rilevare, precisa la Corte, il fatto che nel parallelo procedimento penale il dipendente fosse stato assolto "perchè il fatto non sussiste", in quanto tale assoluzione è avvenuta perché non sono stati raccolti sufficienti elementi di prova a carico dell'imputato.

Infatti, come affermato in più occasioni dalla Corte di Cassazione, “ai sensi dell'art. 652 c.p.p., (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili) il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato, e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2”.

Pertanto, precisa la Corte, in queste ipotesi il giudicato penale di assoluzione non preclude al giudice del lavoro di procedere ad una autonoma valutazione dei fatti, tenendo conto della loro incidenza sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro, ben potendo essi avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonei a giustificare il licenziamento anche ove non costituiscano reato.

In conclusione, il giudice del gravame, evidentemente tenendo anche conto dell'esito del giudizio penale, con giudizio di merito non sindacabile in sede di legittimità, ha correttamente ritenuto che i fatti addebitati al dipendente non fossero di gravità tale da giustificare un licenziamento per giusta causa, ma fossero comunque idonei ad integrare un giustificato motivo soggettivo di recesso.

mercoledì 11 settembre 2013

Il risarcimento da licenziamento illegittimo è tassabile

Costituisce reddito imponibile il risarcimento ottenuto per un licenziamento illegittimo e pertanto operano le regole ordinarie relative alla tassazione del reddito da lavoro dipendente: sentenza della Cassazione.
È lecito tassare il risarcimento che spetta al dipendente vittima di un licenziamento illegittimo: lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20482 del 6 settembre 2013, ribadendo che solo le indennità concesse ai lavoratori per invalidità permanente o morte non sono imponibili.
In altre parole non subiscono l'imposizione a tassazione solo i risarcimenti relativi al danno biologico cioè per infortuni o malattie professionali. (Il risarcimento per causa di morte è assimilato a quello per danno biologico).
Il datore di lavoro che versa un'indennità o una qualsiasi somma al dipendente anche a causa del licenziamento ingiusto deve pertanto operare le trattenute IRPEF sul totale stabilito come rimborso. La sentenza è stata emessa rigettando la richiesta di un dipendente allontanato ingiustamente dall'azienda e, successivamente, risarcito con una somma di denaro alla quale sono state applicate le detrazioni previste dalla legge.
Secondo la Corte Suprema il risarcimento che segue un licenziamento illegittimo viene definito "lucro cessante" e, proprio per questo, rappresenta reddito imponibile.
«Tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistente nella perdita di redditi, ad esclusione dì quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro costituiscono redditi da lavoro dipendente e come tali sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d'acconto.»
Quindi se a seguito di un licenziamento o anche di un accordo conciliativo in cui vengono erogate somme al lavoratore, non si applicano tutte le imposte previste a vario titolo, l'azienda rischia di subire un accertamento per evasione fiscale e/o contributiva.

martedì 18 giugno 2013

Il “demansionamento” di un lavoratore, generalmente vietato, in alcuni casi può essere legittimo.



Nell’ambito dell’organizzazione del lavoro aziendale, è sicuramente capitato a moltissime imprese il fatto di verificare che, a seguito di crisi o di cali di produttività, una o più posizioni lavorative fossero divenute inutili e improduttive ma che i relativi lavoratori potessero essere recuperati con mansioni diverse anche se inferiori a quelle originarie.
In queste ipotesi, l’unica soluzione percorribile, per andare incontro alle esigenze aziendali senza sacrificare i lavoratori, appare quella del c.d. accordo di demansionamento in cui il lavoratore accetti di ricoprire un ruolo inferiore e con retribuzione inferiore a quella con cui è stato assunto. Questo, nondimeno, è sempre stato considerato come un comportamento vietato dalla normativa vigente.
Tuttavia, in alcuni casi, tale pratica risulta possibile e legittima.
La questione deve necessariamente essere inquadrata nella cornice giuridica di cui all’art. 2103 C.C. (Mansioni del lavoratore - Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. (…) ogni patto contrario è nullo).
Secondo il Codice, quindi, la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore (il c.d. “jus variandi” del datore di lavoro) può svilupparsi in direzione orizzontale, mediante l’attribuzione di mansioni equivalenti ovvero verticale nell’ipotesi di assegnazione a mansioni superiori, risultando di regola preclusa la mobilità “verso il basso”.
Il Legislatore, nondimeno, non fornisce una esplicita definizione di “equivalenza” di mansioni, lasciando, dunque, alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva il compito di individuare gli indici della stessa, al fine di verificare se siano stati o meno rispettati i limiti fissati dal predetto articolo del Codice.
Il concetto di equivalenza, secondo un consolidato orientamento, presuppone non solo che le nuove mansioni consentano l’effettivo esercizio della professionalità già acquisita, ma altresì che il lavoratore possa, nell’ambito del differente inquadramento funzionale, conseguire quegli incrementi di professionalità che avrebbe potuto acquisire mediante lo svolgimento delle mansioni originarie.
Costituisce, inoltre, principio cristallizzato nelle sentenze della Corte di Cassazione, quello in virtù del quale l’art. 2103 c.c. debba essere interpretato nel senso di considerare di regola illegittima l’applicazione del lavoratore a mansioni inferiori, anche in presenza di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative alla posizione del lavoratore.
Tutto quanto sopra porterebbe a pensare che le ipotesi di demansionamento siano sempre vietate.
Tuttavia, la Suprema Corte, nell’ambito di diverse pronunce e con un orientamento oramai consolidato, ha sostenuto la non applicabilità della norma in questione laddove l’accordo che preveda l’assegnazione di mansioni di grado inferiore alle ultime svolte corrisponda all’interesse del lavoratore stesso.
In altri termini, si è osservato che il divieto di demansionamento debba essere interpretato alla stregua della regola dell’equo contemperamento del diritto del datore a perseguire l’obiettivo di un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente con quello vantato dal lavoratore alla conservazione del proprio posto di lavoro.
Di conseguenza, in ipotesi di crisi comportanti legittime scelte di riduzione di servizi e mansioni societarie a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l’impiego del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente espletate, non si pone in contrasto con il dettato codicistico (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009).
La Corte di Cassazione ha, infatti, espressamente ammesso la possibilità di accordi di demansionamento, con assegnazione al lavoratore di mansioni e conseguente retribuzione inferiore a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, esclusivamente al fine di evitare un licenziamento, considerando prevalente, in tale ipotesi, l’interesse del lavoratore stesso a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., sez. lav., n. 6552/2009; n. 21700/2006).
In altri termini, solo in via d’eccezione le parti posso pattuire una diminuzione della retribuzione nel corso del rapporto di lavoro, nell’ambito di un patto di demansionamento, laddove questo rappresenti l’extrema ratio per la salvaguardia del posto di lavoro. In tale ipotesi, pertanto, l’impossibilità di mantenere il medesimo livello retributivo dovrà essere rappresentato dal datore di lavoro come elemento in assenza del quale non è possibile salvaguardare il posto di lavoro,
A conforto delle suddette argomentazioni la giurisprudenza ha puntualmente enucleato i presupposti indispensabili per considerare legittimo il mutamento in senso peggiorativo delle mansioni, evidenziando in particolare la necessità che nelle fattispecie concrete si riscontri l’effettività della situazione economico/produttiva pregiudizievole che si vuole scongiurare e soprattutto il consenso del lavoratore validamente prestato, esente da ogni forma di vizio.

mercoledì 5 giugno 2013

Le attività lavorative che NON possono essere previste in un contratto a progetto.

Con l’entrata in vigore della Legge Fornero è partita anche la riforma del contratto a progetto. Dal 18 luglio 2012, quindi, per poter validamente stipulare un contratto di collaborazione coordinata e continuativa a progetto è necessario rispettare alcuni requisiti.
I maggiori cambiamenti rispetto al passato sono relativi alla genuinità del progetto inserito nel contratto a progetto che, infatti, deve essere molto più specifico. Inoltre è necessario che sia funzionalmente collegato ad un risultato finale determinato e definito.
Viene, quindi, posto l’accento sull’ottenimento di un risultato, nel senso che se il risultato non è oggettivamente ottenibile attraverso l’attività descritta nel contratto Co.Co.Pro. di cui si tratta, il contratto medesimo potrebbe essere facilmente considerato non genuino.
Inoltre, è necessaria una accurata descrizione del progetto con individuazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende conseguire, quindi una indicazione più dettagliata, rispetto al passato, nel progetto da allegare al contratto.
Molto importante risulta il fatto che l’attività oggetto del contratto a progetto non deve coincidere con l’oggetto sociale del committente, ossia non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente.
Per quanto riguarda le modalità di esecuzione della prestazione, il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi. Infine, il collaboratore a progetto deve lavorare con autonomia, anche operativa.
E’ stato fatto un elenco di attività riconducibili nell’alveo della subordinazione (ossia considerate rapporto di lavoro dipendente), e quindi per le quali il contratto a progetto è vietato. L’elenco, esemplificativo e soprattutto non esaustivoriguarda i seguenti soggetti e le seguenti mansioni:
  • gli addetti alla distribuzione di bollette o alla consegna di giornali, riviste ed elenchi telefonici;
  • gli addetti alle agenzie ippiche;
  • gli addetti alle pulizie;
  • gli autisti e gli autotrasportatori;
  • i baristi ed i camerieri;
  • i commessi e gli addetti alle vendite;
  • i custodi ed i portieri;
  • le estetiste ed i parrucchieri;
  • i facchini;
  • gli istruttori di autoscuola;
  • i letturisti di contatori;
  • i magazzinieri;
  • i manutentori;
  • i muratori e le altre qualifiche operaie dell’edilizia;
  • i piloti e gli assistenti di volo;
  • i prestatori di manodopera nel settore agricolo;
  • gli addetti alle attività di segreteria ed i terminalisti;
  • gli addetti alla somministrazione di cibi o bevande;
  • le prestazioni rese nell’ambito di call center per servizi cosiddetti in bound.
E’solo il caso di accennare, rispetto alle figure sopra elencate, che l’eventuale Ispettore, verificata l'esistenza di un lavoratore a progetto con una delle mansioni citate, procederà a ricondurre nell’alveo della subordinazione gli eventuali rapporti posti in essere, con tutti i conseguenti provvedimenti sul piano lavoristico, civile e previdenziale (in altre parole si procederà alla conversione del contratto Co.Co.Pro. dell’interessato in un rapporto di lavoro di natura subordinata ed a tempo indeterminato).

martedì 14 maggio 2013

Anche gli episodi non gravi se ripetuti giustificano il licenziamento



Corte di Cassazione Civile - Sezione Lavoro - Sentenza n. 10959 del 9 Maggio 2013

In materia di lavoro la Suprema Corte ha stabilito che ogni singolo episodio che singolarmente non è tale da comportare il licenziamento del lavoratore ma è comunque idoneo ad incidere negativamente nel rapporto lavorativo deve essere concretamente valutato poiché insieme ad altre azioni, anche queste singolarmente ininfluenti, possono comportare il licenziamento del dipendente per giusta causa.

In poche parole, la Cassazione ha deciso che nel valutare ogni singola vicenda che comporta il licenziamento del lavoratore, in mancanza di un fatto grave di per sé idoneo a giustificarlo, si devono tenere in considerazione anche quei comportamenti ripetuti che presi singolarmente non giustificano il licenziamento del dipendente ma, considerati nell'insieme, determinano l'impossibilità di continuare il rapporto lavorativo e, pertanto, giustificano la suddetta sanzione disciplinare.

Nel caso esaminato dai Giudici la decisione presa dalla Corte d'Appello è stata cassata con rinvio poiché "la Corte infatti nell'esprimere un giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata ed accertata, ha, per un verso, del tutto omesso di valutare alcune circostanze di fatto, emerse nel corso dell'istruttoria e, per altro verso, mancato di verificare se le stesse, poste in relazione con le altre condotte accertate, fossero, ove complessivamente valutate, rivelatrici di un comportamento del dipendente che violava i doveri di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto, così giustificandone la risoluzione".

mercoledì 8 maggio 2013

Secondo la Cassazione il nuovo articolo 18 non si applica ai processi in corso (Corte di cassazione - Sezione lavoro - Sentenza 7 maggio 2013 n. 10550)



No all’applicazione del nuovo articolo 18, modificato dalla legge Fornero, ai processi in corso. A chiarirlo è la Corte di cassazione, con la sentenza 10550 del 7/5/2013, giudicando sul caso di un lavoratore della Telecom licenziato per aver inviato 13mila sms, in meno di un anno, dal telefono aziendale, provocando un danno di circa 3 milioni di lire. 

La Corte d'Appello di Napoli, ribaltando le decisione di primo grado ne aveva ordinato il reintegro, e ora la Cassazione ha confermato quella decisione, bocciando, fra l’altro, anche il motivo di ricorso con cui l’azienda chiedeva l’applicazione della Fornero e dunque il risarcimento del danno in luogo del reintegro.



Secondo la società ricorrente, infatti, la nuova disciplina sanzionatoria dei licenziamenti introdotta dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), in mancanza di disposizioni transitorie, sarebbe immediatamente applicabile.



Una posizione però non condivisa dalla Suprema corte secondo cui legge 92/2012 ha introdotto “una nuova, complessa ed articolata disciplina dei licenziamenti che ancora le sanzioni irrogabili per effetto della accertata illegittimità del recesso a valutazioni di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità ma anche con una eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo”.



Di mezzo, infatti, c’è la “ragionevole durata del processo” che verrebbe sacrificata da una diversa interpretazione. Ma a farne le spese, nel caso di una applicazione immediata, sarebbe anche l’articolo 111 della Costituzione sul “giusto processo”; l’articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Diritto a un equo processo), nonché l’articolo 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali (Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale).



Secondo i giudici di Piazza Cavour infatti la legge Fornero introduce un “un’evidente ‘stravolgimento’ del sistema di allegazioni e prove nel processo”, e dunque non si limita “ad una modifica della sanzione irrogabile (come nel caso, pur opinabile, delle modifiche introdotte dall’art. 32 della legge n. 182/2010) ma si collega ad una molteplicità di ipotesi diverse di condotte giuridicamente rilevanti cui si connettono tutele tra loro profondamente differenti”.



Insomma, quello che esce dalla riforma è “un sistema unico che non incide sul solo apparato sanzionatorio ma impone un approccio diverso alla qualificazione giuridica dei fatti incompatibile con una sua immediata applicazione ai processi in corso”.



“Né, al contrario - conclude la sentenza -, vale sostenere che il legislatore del 2012, laddove abbia inteso differire l’entrata in vigore delle disposizioni della legge lo ha fatto espressamente (cfr. art. 1 commi 38 e 39 della legge n. 92/2012 in tema di abbreviazione termini di decadenza dall’impugnazione giudiziaria del licenziamento) stante la necessità di una disposizione di tal genere ove si ritenga necessario differire l’entrata in vigore di disposizioni di evidente natura processuale quali quelle richiamate”.



La Cassazione poi ricorda  che il nuovo “Sistema” prevede distinti regimi di tutela a seconda che si accerti la natura discriminatoria del licenziamento, l’inesistenza della condotta addebitata, ovvero la sua riconducibilità tra quelle punibili solo con una sanzione conservativa (sulla base delle disposizioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili).



“In tali casi - proseguono i giudici - persiste il diritto del lavoratore ad essere reintegrato nel posto di lavoro e ad ottenere un “pieno” risarcimento del danno (dalla risoluzione del rapporto alla reintegrazione), nei limiti dell’aliunde perceptum dell’aliunde percipiendum, mai al di sotto di cinque né al di sopra di dodici mensilità”.



Ma, “in tutti gli altri casi di accertata illegittimità del licenziamento per mancanza di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, il nuovo comma 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prevede solo una tutela risarcitoria (tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita)”. Ed è a  questa ipotesi che si rifaceva la Telecom nel suo ricorso, e che la Cassazione ha dichiarato non applicabile in quanto il processo era già in corso alla data di pubblicazione della legge.



Mentre ancora non è stata affrontata la questione della applicabilità della nuova norma ai licenziamenti antecedenti l’entrata in vigore della riforma per i quali però a quella data ancora non era ancora stato introdotto il procedimento giurisdizionale.